Della vita delle persone può a mio parere dirsi la stessa cosa che va detta a proposito delle immagini fotografiche. Più che essere utile in forza dei suoi contenuti, ripercorrerla attraverso l’esercizio della memoria e delle testimonianze lasciate dai suoi stessi attori si rivela uno strumento prezioso per conoscere la qualità, lo spessore, la messa in campo di focali che il protagonista ha dispiegato per conferire senso alla propria esistenza.
La straordinaria avventura che Lillo Alessandro ci ha offerto nel corso della sua vita conferma ancora una volta la congruità di quanto sopra ipotizzato. Lillo ha dedicato l’intera sua esistenza al folklore siciliano e ce ne ha fornito la variegata gamma di rappresentazioni da lui sperimentate in oltre settant’anni. Un folklore descritto, vissuto, presentificato e comunicato dal versante emico, anziché da quello etico dal quale esso ci viene solitamente offerto.
Del folklore si occupano infatti al giorno d’oggi, pressoché in forma esclusiva, gli studiosi, i folkloristi appunto, gli antropologi che nella cultura popolare e tradizionale cercano di leggere le dinamiche del mutamento e della persistenza che nel corso del tempo le società hanno registrato.
Lillo Alessandro è stato un uomo che ha attraversato numerose stagioni della vita sociale, dello spettacolo, della cultura messinesi e siciliane. Un uomo dai mille mestieri e dalle mille esperienze, che da piccolo garzone diventa dirigente superiore di un Ente Regionale, crea e anima decine di Associazioni, organizza centinaia di eventi, dischiude la conoscenza del mondo esterno, dell’intero pianeta!, a compagni di viaggio da lui progressivamente introdotti alla conoscenza, alla valorizzazione e alla pubblica fruizione di un patrimonio, le tradizioni popolari, in specie quelle basate sul canto e la danza, in genere guardate con grande sussiego e con un po’ di puzza al naso dagli studiosi, cui fa spesso difetto un contatto reale con le identità che la società continua incessantemente a costruirsi e che si crogiolano con il ricondurre la cultura tradizionale ai soli suoi elementi rarefatti dell’ “et in Arcadia ego”, dell’epoca antecedente la scomparsa delle lucciole.
Gramsci ci ha insegnato, in pagine ormai famose, che il folklore è una cosa seria che va presa sul serio. Nel 1949 i Quaderni del carcere hanno infatti aperto una nuova traccia epistemologica nell’analisi dei fenomeni di cultura popolare, proponendo una definizione del folklore che si avvicina molto a quello antropologico di cultura, sub specie subalternitatis: “Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come «pittoresco»….. Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» … che si sono successe nello sviluppo storico” (Quaderno 27, Gramsci 1975, vol. III, p. 2311).
I gruppi folkloristici, dei quali qui da noi in Sicilia quello che Lillo Alessandro ha rifondato, i Canterini Peloritani, è senz’altro il più conosciuto, hanno dispiegato la propria attività in un senso di volta in volta nostalgico, conservativo, tradizionalista, facendosi promotori per un verso di esibire all’esterno le radici identitarie (o avvertite tali) del proprio angolo di mondo, per altro verso di sperimentare forme di incontro e condivisione delle rispettive culture coreutico-musicali con altri consimili compagini. Tale dato è a mio parere antropologicamente significativo, ed è tutto da decriptare alla luce di un’ermeneutica che non possiamo non far risalire proprio ad Antonio Gramsci e alla sua concezione di nazional-popolare.
In realtà, qualunque giudizio si possa esprimere nei confronti di tali gruppi (e io confesso che il mio è stato assai spesso in passato alquanto problematico…) non si può negare che essi abbiano trasportato l’universo delle tradizioni popolari dalla condizione di forme culturali proprie di società fredde (secondo la celebre distinzione lévi-straussiana, quelle che si pongono al grado zero di temperatura storica, quindi sempre – apparentemente – immobili e simili a se stesse) a una condizione di forme culturali proprie di, e perfettamente inserite in, società calde come quelle moderne (tutte volte a consumare rapidamente il presente, alla stregua di motori a scoppio) cui venivano proposte le narrazioni di una cultura della quale si offriva un volto sia pur pacificato, privo di conflitti, non ancora aperto alle contraddizioni della dialettica egemonia-subalternità, ma in qualche modo sempre alla ricerca di forme più nuove e meno oleografiche di identità.
Questa lunga e fruttuosa epopea che Lillo Alessandro ci ha offerto permette di cogliere in vivo, dall’interno, le dinamiche che hanno condotto un giovane di belle speranze a diventare un abile imprenditore dello spettacolo. Un organizzatore di eventi in grado di trascinare nel suo sogno migliaia di giovani e, in un determinato momento del suo percorso artistico, in grado di esprimere anche la sensibilità, e financo l’urgenza di raccordarsi al mondo degli studiosi (lungo una linea non marxista che da Paolo Toschi, attraverso Giuseppe Profeta e Giovanni Battista Bronzini, conduce fino ad Aurelio Rigoli) per trovare negli studi accademici una maggiore consistenza alla propria attività, proponendosi di riscattarla in tal modo dalla patina edulcorata e consolatoria retaggio della cultura dopolavoristica del Ventennio. La sua maniera di intendere il folklore si è in tal modo venuta progressivamente trasformando dalla visione statica, e in qualche modo chiusa alla storia, del coacervo indigesto di cui parlava Gramsci a una prospettiva dinamica, desiderosa di dialogo con altre realtà e consapevole della necessità di benefiche contaminazioni.
Fatte salve tutte le sintetiche considerazioni fin qui espresse, mi rimane da aggiungere che l’intera esistenza di questo messinese doc possiamo oggi leggerla come un romanzo che ci consente di gettare scandagli preziosi sulla storia di Messina, sulle dinamiche che hanno prodotto le classi dirigenti della città, dal dopoguerra in poi, sui meccanismi che hanno regolato i rapporti di forza tra i gruppi sociali in questa città.
E uno dei protagonisti indiscussi è risultato essere sempre lui, Lillo, una vita da picaro, da giramondo, che lo ha portato ad attraversare e vivere le situazioni più straordinarie, a contatto con capi politici, Papi, magnati, attori e cantanti famosi, e qualche volta (malgré lui) anche malavitosi, ma sempre mantenendo un’onestà e un calore umano di fondo, una curiosità intellettuale e una freschezza di carattere per nulla provinciali. Ballerino, cantante, showman, presentatore, in grado di dispiegare una gamma di prestazioni artistiche e spettacolari da fare invidia anche ai più smaliziati artisti del nostro povero presente. Pluripremiato, osannato da pubblico e critica, uomo di tutte le stagioni in grado di tutte attraversarle cercando sempre di estrarre da esse e capitalizzare il meglio che potessero fornirgli. La sua vita non può essere pertanto ridotta e limitata alla sola esperienza “folkloristica”. Il suo carattere, la sua umanità lo hanno portato a fare, sempre con il medesimo entusiasmo, una molteplicità di cose che hanno lasciato il segno nella storia non solo sua e della sua famiglia ma anche della nostra città, direi della Sicilia tutta.
Ecco, la sua esistenza può essere letta come un romanzo, ma anche come la storia di un’epoca, di una città, di un “pensiero dominante”. L’epopea di quello che è stato, a ragione, riconosciuto dalla Regione Siciliana un Tesoro Umano Vivente.






