Immaginare una città diversa, a Messina, è percorso complesso già sul piano meramente intellettuale. Le difficoltà non sono rappresentate dall’individuazione delle diverse e possibili idee, proposte, progetti con cui ridisegnare – non solo urbanisticamente – l’ambito geografico coinvolto. È piuttosto il pessimismo sulla loro attuazione che, dopo gli entusiasmi iniziali, scoraggia e induce a desistere molti di coloro che del luogo in cui sono nati e cresciuti conservano un’immagine migliore e diversa da quella che la quotidianità offre loro.

Ciò, come è ovvio, non esime dal provare e riprovare anche a costo di risultare o sentirsi testardi e, inutilmente, ostinati.

Pensare al futuro implica uno sguardo al passato, senza mitizzazioni; comporta altresì l’individuazione di un disegno complessivo per la città del futuro e, infine, la verifica dei soggetti che possono e devono farsi portatori della sua attuazione. Tre piani tra loro diversi ma connessi, come a formare tre cerchi concentrici per rendere visibile che, a ben vedere, si tratta di un unico agire; per sottolineare da subito che solo un approccio globale al tema può ragionevolmente produrre una Messina diversa che i suoi abitanti siano orgogliosi comunicare adducendo fatti e non mere chiacchiere.

Un’immaginaria passeggiata aerea da sud a nord della città, così da descriverne i cambiamenti degli ultimi quarant’anni, mette in luce un tratto comune sintetizzabile con una parola, breve e secca: “ex”. Area ex Sanderson, ex ponte americano, ex cantieri Smeb, ex Collegio dei Gesuiti, Irrera e Irrera a mare, Ospe, Quirinetta, Trinacria, cinema Odeon, Aurora, Metropol, Gasometro, SeaFlight e così via a indicare luoghi, persone, attività, imprese di una città che non c’è più ma che ancora incide sul presente dei suoi abitanti. Senza distinzione di età, in modo intergenerazionale ma anche, per quanto ancora abbia un senso utilizzare una tale formula, senza distinzione di classi sociali. E inconsapevolmente questa moltiplicazione di ex luoghi, ancora nominati per molteplici aspetti della vita di tutti i giorni, comunica una rassegnazione che è probabilmente il primo nemico da combattere.

 

Sembra quasi che agli ormai abusati esempi di non luoghi individuati dalla penna di Marc Augè si siano qui sostituiti gli ex luoghi che, con la loro presenza, vuota di fisicità, impediscono di realizzare il nuovo, di lasciar libera la mente per pensare al futuro. Il primo passo, così, diviene quello di disegnare nella mente una città che abbia dei luoghi nuovi da raccontare e che li realizzi in un quadro d’insieme armonico e coerente con la sua collocazione geografica: sul mare e al centro del Mediterraneo. Sembra un’ovvietà tante volte sentita e ripetuta. Il nodo cruciale è, in tale prospettiva, il turismo.

Nelle sue molteplici declinazioni di turismo culturale, architettonico, termale, congressuale, crocieristico, sportivo, esso dovrebbe essere la materia prima di una visione politica prima e di urbanistica poi della città, da sud a nord, che riattivi la smarrita anima imprenditoriale dei messinesi. Fatta questa scelta strategica che impone di localizzare altrove, nella provincia, attività di tipo diverso, Messina potrebbe divenire un laboratorio unico per urbanisti, architetti, imprenditori e, prima di tutti loro, politici. Questi ultimi sono quelli investiti del compito più difficile, quello a cui forse sono meno adusi da troppi anni: rischiare e imporsi di ragionare nei termini di un riconoscimento elettorale di lungo periodo.

Quel riconoscimento che deriva dalla dimostrazione delle cose fatte e non dalla monotona narrazione di quelle che si vogliono fare, dalla conservazione di ciò che di buono la parte politica avversa ha realizzato e non dalla sua distruzione, dal voto dato e ricevuto per l’aumento di ricchezza del territorio e non dal posto precario che si promette, al prossimo giro, diventerà posto fisso. Un tale approccio implica sì una discussione con le Circoscrizioni sulle vocazioni e aspirazioni degli stessi, ma al contempo una sintesi progettuale che può, nell’immediato, scontentare più di qualcuno. È un dato ormai acquisito dalle scelte politiche altri Paesi e di altre città che pedonalizzare intere parti del territorio o imporre il trasferimento di attività d’impresa non coerenti con la vocazione programmata per la città, provoca all’inizio e per un tempo non breve, disagi, perdite economiche non secondarie; tuttavia quando il disegno si è concretizzato il ritorno, in termini di benessere complessivo, non solo ma anche economico, è ben superiore.

Non è questa la sede né sono qui presenti le conoscenze professionali per questa fase; indubbio è, però, che non si può immaginare una Messina del XXI secolo se non la si riprogetta urbanisticamente ed economicamente con un approccio globale, se non si abbandona la politica delle scelte insane, emblematicamente dimostrata dagli interventi, pressoché tutti, ad oggi realizzati. È il caso di una tramvia innestata nelle strade cittadine come se si trattasse di un tratto di ferrovia che attraversa territori non urbanizzati, rendendo prive di sbocco molte strade e serpentoni d’asfalto altre (cos’è altrimenti il viale della Libertà) per poi tentare di rimediarvi anni dopo come a metter le toppe su dei pantaloni ormai logori. È il caso ancora di un lungolago che periodicamente viene rifatto più o meno negli stessi punti e sempre in modo diverso sì da apparire un orrendo patchwork e di una ripavimentazione del centro storico a macchia di leopardo e, senza disegno organico, con materiali e trame che da sole dimostrano l’assenza di progettualità.

Che fare allora? 

La fascia costiera di Messina deve essere tale; deve tornare a essere un armonico susseguirsi di affacci sul mare aperti a tutti, di strutture essenziali e non invasive che assecondino le citate diverse anime che il turismo porta in giro per il mondo. La ferita di una ferrovia che taglia tutto il versante sud deve tornare a essere l’utile mezzo di trasporto che integra la mobilità urbana su gomma. O, se ciò non occorre e senza grandi opere come l’ultima tendenza newyorkese insegna, deve diventare un altro modulo di quella passeggiata sul e verso il mare che da troppo tempo siamo costretti a fare altrove, nella Valencia dell’Americas Cup e del deviato Rio Turìa, nella Barceloneta della capitale catalana o, ben più vicino, nella dirimpettaia Reggio Calabria. E, questa volta a nord, dalla Passeggiata a mare sino alle frazioni di Faro e Mortelle, l’accesso a mare e i relativi servizi devono essere frutto, ancora, di una visione d’insieme che non trasformi la giusta esigenza di servizi sul mare in un susseguirsi di lidi precari, disegnati senza alcuna coerenza e che, nella fame di strutture, si riducono in un nuovo muro alla vista dello Stretto e del mare, dopo quello della Fiera, dell’ex Gasometro e, ancora oggi, dell’intero tratto di costa tra Capo Peloro e Mortelle.

Chi può fare tutto ciò è, in verità, il momento centrale. Da anni si assiste a Messina (ma non solo) a un fenomeno sottovalutato: il cambiamento del tipo di emigrazione. Nel secolo scorso, fino agli anni Ottanta, l’emigrazione era un fatto che, percentualmente, coinvolgeva le fasce più povere, chi, senza lavoro e patrimonio, cercava altrove la realizzazione di sé stesso e il proprio sostentamento. Da almeno trent’anni, però, sembra cambiato qualcosa. Va via chi può, chi ha il denaro sufficiente – se non in abbondanza – per vivere e ricominciare da un’altra parte, lì dove le opportunità esistono, la qualità della vita è un valore, il rispetto della cosa pubblica, dal marciapiede al monumento, è un fatto normale. Una tale forma di emigrazione è, per molti aspetti, infida; lo è più delle promesse non mantenute dei politici, delle catastrofi naturali che affliggono il territorio. E’ il segno di una rassegnazione che coinvolge le forze produttive di oggi e i loro figli, la ricchezza di domani. E’ ciò che contribuisce a spiegare la pochezza della politica messinese degli ultimi anni, la disaffezione verso la città, la difficoltà a trovare risorse e persone pronte a investire per il territorio.

Quasi un grido è quello che dovrebbe venir fuori da chi spera ancora – anche solo per mera legge statistica – in una svolta messinese. Il grido alla generazione di chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta che non bisogna andare via e, soprattutto, non bisogna fare andar via i propri figli, il grido, l’urlo forse, di chi crede ancora nella città e nella sua gente smarrita, e dà quell’esempio sano di senso civico e rispetto di cose e persone che, forse, rappresenta, il male della Messina di oggi. Basta poco, a ben vedere, per svegliare dal sonno la città. È sufficiente iniziare a trasmettere ai propri figli e agli altri intorno a sé, col proprio agire quotidiano, quel rispetto delle regole, quell’esempio di condotta, che altrove ogni messinese guarda sempre con non poca invidia. Pensare che si può camminare per strada senza le auto sui marciapiedi perché, sempre e comunque, si sarà multati e, allora, posteggiare solo dove si può; pensare che le aree pedonali sono tali e non riserve per i soliti furbi in macchina o in moto e non invaderle perché ‘tanto lo fanno tutti’; pensare che avviare un’attività o fare dei lavori edili con la certezza della prassi amministrativa da seguire e senza dover chiedere favori a nessuno, non è un qualcosa così difficile da realizzare e, quindi, provarci.

Un piccolo passo, un piccolo gesto collettivo per continuare a sperare.

 

Giovanni Liotta

Dopo oltre dieci anni di professione notarile a Torino, vivo nuovamente in città ma solo la fortuna di girare il mondo per il mio lavoro mi spinge a non andare di nuovo via. Mi occupo, infatti, della formazione dei notai europei a Bruxelles (www.cnue.be) e faccio parte del Consiglio di direzione dell’Unione internazionale del notariato (www.uinl.org), una Ong che collabora con Governi e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale o la Fao“.

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