MESSINA. Nel 1908 Messina viene gravemente danneggiata dal terremoto. E con un colpo di spugna Luigi Borzì ridisegna la città con una planimetria a scacchiera su cui si innestano due filoni architettonici intimamente legati alla rappresentazione del regime fascista e della nuova Messina: il tradizionalista accademico e quello razionalista moderno. Il primo caratterizzato da operazioni come il Palazzo di Giustizia e la Prefettura, il secondo che trova il suo punto di partenza con il concorso per la Nuova Palazzata e per le chiese della Diocesi, rispettivamente del 1931 e del 1932. Dove però il “moderno” debutta la prima volta a Messina è alla V Rassegna delle Attività Economiche siciliane del 1938, e cioè quella che sarebbe diventata l’attuale Fiera campionaria internazionale. Il luogo scelto è quello dello chalet Umberto I, i giardini lungo il viale Principe Amedeo (l’odierna via Libertà). Ultimo simbolo rimasto della città ottocentesca. La V Rassegna di Messina è qualcosa di molto speciale per il Regime. Mostra da una parte la celerità nel costruire e determinare complessi architettonici (l’edificazione della cittadella durerà appena otto mesi), mentre dall’altra è una sorta di canto del cigno dell’autarchia, e di quella siciliana in particolare, a pochi anni dall’inizio della fine e dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. La paternità dell’adeguamento dell’area va ad Adalberto Libera e Mario De Renzi, entrambi sulla trentina ed esponenti del “nuovo” architettonico del momento.

A permettere un’attribuzione della prima cittadella ai due è un documento conservato all’Archivio Storico di Messina (vedi F. Cardullo, La Fiera di Messina: un esempio di architettura razionalista). Del progetto, redatto in meno di otto mesi, sono noti due disegni non autografi. La cittadella viene concepita come una corte aperta verso lo Stretto di Messina. Libera e De Renzi adattano perfettamente il nuovo al preesistente. Tutti gli elementi caratterizzanti del vecchio chalet: la vegetazione, il laghetto, il fonte Brugnani, la fontana in ghisa, il palchetto della  musica, infatti rimangono intatti.

A differenza dell’attuale conformazione, l’ingresso viene collocato sul viale Principe Amedeo. A caratterizzare il progetto, un edificio lungo 300 metri parallelo al mare e leggermente inclinato rispetto all’asse viario. Il padiglione, scandito da 19 volte, è quadrato e diviso al suo interno da un passaggio centrale. La luce passa attraverso lo spazio determinato dal vuoto sottostante l’ampiezza della volta. L’edificio ospita agricoltura, artigianato ed industria. Il grande viale centrale è chiuso a nord da un’esedra ellittica, che ospita la pista da ballo. A sud, invece, il teatro all’aperto. Nello spazio vicino al portale di ingresso, poi, tutti i padiglioni. Il progetto di Libera e De Renzi giocava sulla luce e sull’ombra, sull’aria fresca e sulla protezione dalla calura estiva.

La Fiera rimane tale e quale fino al 1940. Poi scoppia la guerra.

La Fiera, diventata ente autonomo, riapre il 10 agosto del 1946. A ristrutturarla, dandole un’impronta personale pur rispettando quella di Libera e De Renzi, è Filippo Rovigo. All’architetto messinese, allievo di Giuseppe Vaccaro a Roma, si deve il primo sostanziale mutamento. E cioè l’ingresso, che si sposta alla fine della passeggiata a Mare. E sarà proprio il portale di ingresso a diventare in futuro il biglietto da visita della cittadella. Rovigo concepisce un arco in cemento armato che al suo culmine raggiunge i 22 metri. A sinistra, l’architetto costruisce un nuovo padiglione per gli uffici, a destra si edifica l’Irrera a Mare. All’altezza del vecchio ingresso nasce poi una grande vasca centrale, che diventa il punto di snodo del nuovo assetto. Il padiglione centrale di Libera e De Renzi viene ampliato.

L’operato di Rovigo dura solo un anno. Nel 1947, a vincere il concorso nazionale per la Fiera è Vincenzo Pantano, che rimarrà architetto dell’Ente per dieci anni. È proprio con lui che la cittadella raggiunge il massimo splendore architettonico. Il lavoro di Pantano va diviso in due tappe, dal 1947 al 1949 e dal 1950 al ’56. L’architetto, in una prima fase costruisce piccoli padiglioni e modifica l’ingresso, al posto dell’arco di Rovigo arrivano le vele. Poi si lancia in una ristrutturazione complessiva. Il padiglione centrale viene ricostruito in più fasi, diventando, come dice Cardullo «un transatlantico tirato a secco». Le vele diventano elementi orizzontali prima e poi sei ripiani calpestabili. E poi realizza uno dei più bei padiglioni, quello delle mostre d’arte e il turismo, caratterizzato dal rivestimento in vetro e da una fascia in ceramica alla base. A Pantano si deve anche la demolizione-rimodulazione dell’Irrera a Mare, il cui salone interno offre una vista spettacolare.

Nei trent’anni successivi a Pantano la Fiera cambia ancora volto, perdendo la “leggerezza” che aveva caratterizzato fino ad allora gli edifici della cittadella, con la comparsa delle bandiere in facciata e dei controversi padiglioni “hi-tech”. Il resto è storia nota. 

(Articolo originariamente pubblicato dall’autore sul settimanale “Centonove” ad agosto del 1999).

(In copertina una cartolina tratta dall’archivio Riccobono-Fiorentino)

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