“Abitare le distanze” diventa l’ossimoro che meglio descrive la non resistibile contraddizione tra il rinnovato bisogno di radicamento nello spazio e la crescente appartenenza al fuori, tra localismo e deterritorializzazione, tra l’esperienza dello stare e quella del transitare, materialmente ed immaterialmente. Così andremo avanti, forse a fatica, senza immaginare però di poter imbozzolare, iconografare lo spazio-movimento e senza soprattutto pensare di dover ridurre la complessità.

Forse sarebbe possibile un percorso: quello di suggerire i significati, i valori, gli ordini latenti e/o inespressi, con forme di comunicazione persuasiva e scoprire significati nascosti in significanti noti.

E, anche se sembrano superate la mitologia dell’ antiurbanesimo e la visione apocalittica del destino della città, non bisogna cedere alla tentazione intellettuale di allargare i problemi. Il fatto è che “la città non ci garantisce più quello che ci ha promesso”: dalla libertà alla cittadinanza, all’attenuazione della diseguale distribuzione della ricchezza, al pluralismo culturale, alla promozione di stili di vita più aperti etc. Ma vivere la città come un incubo non ci porterebbe lontano.

Le geo-grafie, quelle del senso comune, comunque si sono aperte sempre di più all’ascolto dei luoghi e alla ricerca di significanti non banali,  all’ascolto del grano che cresce, come avrebbe potuto dire Levi Strauss (2003). Proprio perché la complessità dell’urbano si è rivelata irriducibile, né più né meno della complessità della società.

Di periferie, del loro modo di produzione, della paura che nasce dall’abbandono, di una insicurezza in un certo senso voluta (un nodo scorsoio,  come dura replica alle storie del modo di produzione urbano), dobbiamo parlare molto, per esorcizzare la disgregazione sociale e ristabilire i canoni della cittadinanza (La Torre,2000) .  Ma lo squadernarsi della città recupererà marginalità e insufficiente qualità di vita? Soprattutto attenuerà l’insorgere, su porzioni di territorio a perdere, dei pericolosi effetti di una sorta di cittadinanza parallela, alternativa, generatrice di disvalori che aggregano e danno senso, senso comunque, anche welfare parallelo. E’ come riandare all’istituzione alternativa e/o parallela di Santi Romano ( 1947, poi 1983) o al sovrapporsi di storie come in  Zagrebelsky (2007).

E saranno narrazioni quotidiane, nuovi discorsi, la modalità per reiterare e istituzionalizzare l’esistente,collaborando alla costruzione di significato, all’attribuzione di senso, utili all’inverarsi di nuova regola sociale. Le città e le stanze del territorio, nella metafora di L.B. Alberti, scene locali dai contorni incerti e sovrapposti, che “nel loro montaggio complessivo, si catalizzeranno nei luoghi di maggiore dinamismo”, saranno connessione, relazione, in una maglia di gravitazioni e di gerarchie,  sistema. ( Campione, 2005)   E la ‘narrazione’ della città,  l’edificazione dei suoi ‘miti’, divengono le reali strategie di marketing urbano e,  al tempo stesso, in modo più o meno consapevole, influiscono sui modi e sulle operazioni di trasformazione e cosmesi: la città prospera alimentando la propria leggenda, obliando cadute e distorsioni e delegando a logiche progettuali, talora improbabili, le strategie per un divenire compatibile. Il ‘percorrere’ la città, il ‘camminarla’, il leggerla diverranno allora, in questo contesto,  strumenti di vera e propria ‘scrittura’.

Così la mappa mentale delle città può dirsi addirittura creata dall’insieme dei discorsi e delle rappresentazioni che si sono succedute. Riflette ad esempio Calvino (1995): prima che una città del mondo reale, Parigi, per me come per milioni d’altre persone d’ogni paese, è stata una città immaginata attraverso i libri, una città di cui ci si appropria leggendo. Augè (2005) ci riporta invece a quella che Lyotard (1974) chiamava la fine delle grandi narrative, un momento che corrisponde alla perdita delle illusioni: dai miti d’origine che sono spariti da tempo ai miti escatologici del futuro.

Ora ripensare all’utopia di città per vivere, con modalità urbanistiche che dovrebbero superare antiche logomachie sulle priorità degli assunti, significa non navigare verso un’isola che non c’è, ma immaginare un’antigeografia dell’esistente. Tornare cioè alla città come principio ideale e come motore di una nuova armonica, in quanto possibile, regionalità. Regione come spazio costruito da una storia ripensata che si è inconsapevole sedimentata in antropologie e logiche territoriali che ne hanno disatteso le grammatiche. La geografia, e poi l’urbanistica, avrebbero dovuto dare forma a un piano di generali riconsiderazioni capaci di tener conto “contemporaneamente” di tutti i fattori sociali, culturali, economici: “questi sono i soli che potranno modificare le condizioni di vita”, diceva Adriano Olivetti (1958), prima che Campos Venuti ( 1987) parlasse di terza generazione e quel “poetare” apparisse alla fine confinato alle regioni del cuore.

Questa visione, che sembrava anch’essa auto-confinarsi nei recinti dell’utopia, resta riferimento per chi ha memoria di storie e progetti locali, di azioni di pianificazione continue nel tempo, che avrebbero dovuto rappresentare una risorsa determinante per sperimentare più efficaci modelli di governo metropolitano? Azioni di pianificazione urbana, cioè, dialogata e monitorizzata da forze sociali e culturali, con azioni condivise, con forme interistituzionali di collaborazione, in una comune rilettura delle opzioni di crescita, ripensandone le dinamiche, per una diversa relazione tra strategie e progetti. Ecco allora l’urgenza di dare senso compiuto al progetto di ricostruzione della città, per nuovamente, e questa volta più compiutamente, pensare ad un urbano possibile: mobilitando in questo muoversi risorse, volontà, intelligenze, professionalità, luoghi di società esigente.

Non siamo riusciti fin qui a garantire, proprio per la carenza di discorso metropolitano, quelle epifanie che avevamo promesso: nuove germinazioni, dalla cultura della libertà a quella della cittadinanza, al pluralismo culturale, alla promozione di stili di vita più aperti etc. Per questo la “promessa urbana”, resta una sfida e tutti gli attori siamo chiamati ad affrontare il disordine che è l’altra faccia del nozionismo dello sviluppo e delle crescita impropria. In altre parole dovremmo nuovamente rintracciare una più generale sperimentazione di congrue opzioni culturali, anche per conseguenti azioni di governo: in modo da determinare possibili mappe di capitale sociale, ricco di invenzioni e pensieri forti e finalizzato, negli effetti di un operare complessivamente dialogato, ai temi dell’auspicata nuova qualità della convivenza. (continua)

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