di Sveva Arcovito e Marino Rinaldi. Illustrazione di Monica Bellantone.

 

Amir sollevò dal pavimento della terrazza quel piccolo aliante di acciaio che aveva costruito per Antonio e lo osservò in controluce, facendo planare lentamente la sua silhouette fra i due Stretti.

Il sole era accecante. Gli era sempre piaciuto notare quanto fosse scura e corta la sua ombra a quell’ora: la Calabria si vedeva nitidissima e gli sembrava di poterla toccare, allungando la mano. A destra, il resto della Sicilia sembrava un piccolo mondo a sé stante, con l’unico lago di Ganzirri rimasto, e quegli edifici vecchi degli anni ’30 che convivevano coi grattacieli. Poliedri stretti e lunghi e accecanti.

Negli ultimi trent’anni, dopo Il Disastro, Amir era uscito raramente dal Ghetto. Lì la Natura lo aveva esiliato, e lì voleva rimanere, e per questo arrancava scuse su scuse ogni qualvolta si presentasse la necessità di spostarsi, rifiutando tutte le proposte di lavoro che lo avrebbero fatto finire al di là del Grande Strappo.

Se ripensava a quella notte terribile e misteriosa, con Miranda incinta, gli veniva su dallo stomaco quel bruciore fitto fitto di pura angoscia che nessuno dovrebbe conoscere mai durante un’esistenza. Erano nel loro piccolo covo, un trivani in via Pozzo Giudeo. Avevano appena finito di fare l’amore, quando sentirono la prima scossa, fortissima. Fuori sembrava esserci stato un boato insopportabile per dei timpani umani. Giusto il tempo di mettere insieme le idee, mentre il sudore freddo gli colava dalle tempie, e si rivestiva di fretta e furia. Miranda urlava. Uscirono abbracciati, tutti i loro vicini erano fuori terrorizzati, ma nessuno pareva essersi fatto male. Ed ecco poi la seconda scossa. Sempre quel boato maledetto. Poi, più nulla. Silenzio, e poi il delirio tra loro, in strada.

Solo la mattina dopo si resero conto che la faglia si era spezzata all’altezza del Pantano piccolo, facendo compiere a tutta Torre Faro uno slittamento di decine di metri verso la Calabria. Ma a destare totale incredulità in tutto il mondo non fu tanto questo. Era stato un vero e proprio miracolo: non c’era stato nessun morto. Era assurdo, inspiegabile, incomprensibile. Di ipotesi, letture, spiegazioni scientifiche e religiose se n’erano fatte assai, ma la verità, pensò Amir, è che chissà che aveva combinato Colapesce, laggiù in fondo al mare.

Si era siddiato e se n’era voluto andare.

Negli anni, i messinesi di Messina chiamarono lo stranissimo evento U miraculu, pronunciando questa parola allargando le braccia e alzando il naso verso il cielo, sentendosi davvero speciali per aver meritato quella imperscrutabile grazia divina. I messinesi di Torre Faro, zolla di terra ormai staccata e in balìa dello Stretto, invece, cominciarono a chiamarlo Il Disastro. Perché da quel momento capirono di essere stati lasciati soli, da Messina e dall’Italia e dal Mondo. E che Torre Faro era diventato – e sarebbe rimasto negli anni a venire – Il Ghetto.

Amir e Miranda non erano mai voluti andar via da lì. In quel luogo in cui negli anni avevano trovato rifugio immigrati, stranieri, derelitti, anime solitare che fuggivano da qualcuno o qualcosa. Fare avanti e indietro da Messina era stato troppo complicato fin dall’inizio e col tempo gli aliscafi che facevano da spola fra le due sponde diventarono sempre più radi e scostanti. Dopo aver definitivamente abbandonato il progetto del Ponte sullo Stretto, subito dopo U Miraculu/Il Disastro, qualche buontempone aveva persino avanzato l’idea di farne un altro che collegasse il Ghetto a Messina. Ma ovviamente tutto finì lì, dopo qualche rendering, nell’iniziale ilarità generale che pian piano divenne indifferenza, e poi quasi fastidio. Quando poi l’autonomia differenziata divenne una triste realtà per il Paese, pian piano il Sud divenne sempre più periferia del mondo, dimenticata. A nessuno interessava più la Sicilia, e Messina. Figurarsi il Ghetto.

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Quando conobbe Miranda aveva appena 22 anni, ed era arrivato a Messina solo da un paio di mesi, il 15 di ottobre del 2022, in una luccicante mattina di sole. La città gli parve da subito immobile, ciondolante, indolente, come un beone che si gode il malessere del post sbornia in una domenica festiva.

In Iran all’epoca c’era il caos. La popolazione che si ribellava al regime islamico veniva incarcerata, torturata, impiccata. E lui si sentiva persino in colpa per essere riuscito a fuggire, trovando rifugio in quella città lontana che non aveva mai sentito nominare, dove avrebbe potuto proseguire gli studi. Il suo obiettivo era sempre stato quello di diventare un grande architetto. Un sogno che coltivava fin da bambino, quando a letto si stropicciava gli occhi, a volte quasi con violenza, e con i punti e le linee che gli apparivano nel buio delle palpebre costruiva palazzi ondulati, ponti senza fine, strade che non portavano da nessuna parte. Visioni.

I primi mesi furono devastanti. Da solo, in una terra straniera, senza conoscere la lingua, con il corpo in Italia e la mente ancora a Isfahan, fra i suoi mostri e il suo dolore. E nessuno con cui ridere, bere, suonare la chitarra, parlare.

Trascorreva i suoi pomeriggi vagando senza meta fra strade sconosciute, divertendosi a ridisegnare con la mente le fattezze di quella città di confine che la furia della Natura si era già divertita due volte a oltraggiare, trasformando per sempre quella linea di mondo racchiusa fra le montagne e il mare in una terra desolata, martoriata da decenni di abusi, superfetazioni e orrori urbani. Passeggiava da solo, per ore, e da solo immaginava se stesso negli anni a venire, condannato da un Dio maligno e rancoroso a immaginare il mondo senza poterlo davvero toccare.

Poi, un pomeriggio, in quel bar, la vide. Era seduta a uno di quei tavolini di metallo rotondi e colorati, vicino a Largo Seggiola, dove lui aveva trovato una stanza in affitto: un piccolo tugurio di 20 metri quadrati che puzzava di muffa, ma da cui si vedeva una sottile striscia di mare.

Lei aveva i capelli biondi, lunghi e vaporosi, un vestito marrone un po’ vintage e gli occhi assonnati che si spostavano pigramente fra le pagine di una rivista patinata. Rimase a lungo a spiarla, osservando le sue dita sottili che sembravano accarezzare la carta sgualcita, con ponderata lentezza. Quando poi i loro sguardi finalmente si incrociarono, Amir provò un sentimento indeterminato di vertigine, come se da qualche parte qualcuno o qualcosa avesse svitato le vite dei pilastri che sorreggevano il mondo. Una tumpulata in piena faccia, avrebbe pensato tanti anni più in là, in quel dialetto che ogni tanto si mescolava nella sua testa con la lingua persiana ormai quasi dimenticata.

E lo stordimento di quel primo sguardo fu tale che solo al loro secondo incontro – sempre in quel bar, in un pomeriggio di maggio – si rese conto della stellina tatuata sulla sua guancia sinistra: un piccolo fregio di un blu intenso che negli anni avrebbe perso intensità e vigore, nascosto fra le rughe e fra i segni del tempo.

Quello che accadde in seguito lo avrebbe ricordato come un caleidoscopio impazzito: le gite in motorino sui Colli, il sushi in spiaggia a Paradiso, le lunghe passeggiate sulla riviera. Poi il trivani in via Pozzo Giudeo, il Grande Strappo, i figli, Antonio, il loro unico nipote, un cancro al seno riposto nel cassetto, la solitudine del Ghetto, la pelle che come una spugna assorbe tutte le scorie e le impurità del mondo.

Erano passati più di sessant’anni dal primo incontro con Miranda. Eppure ogni volta che la guardava, malgrado l’inevitabile decadimento del corpo, non poteva fare a meno di trovarla bella. Talmente bella che a volte quell’indeterminato sentimento di vertigine che aveva provato la prima volta si ripresentava, e Amir era costretto ad aggrapparsi a qualcosa per non perdere l’equilibrio e precipitare nel vuoto.

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Quel giorno il Ghetto sembrava brillare di luce. La stanza invece era buia, silenziosa, e dalle finestre socchiuse penetrava una luce gialla, di sbieco, piatta come una lama.

Ancora seduto in terrazza, Amir ripose l’aliante di acciaio del piccolo Antonio e restò a lungo a osservare l’intorno. Nei pressi della casa, una piccola palazzina su due livelli che un tempo aveva ospitato una bottega di artigianato, sorgeva ancora il nucleo antico del paese: un dedalo di stradine aggrovigliate che si estendeva fra il lago e il mare. In mezzo alle costruzioni, un tempo abitate da famiglie di pescatori, facevano capolino i rimasugli di un tempo lontano, prima del Disastro, quando Torre Faro era ancora il luogo di villeggiatura scelto dai messinesi per svernare nei mesi estivi: ristoranti, bar, carcasse di lidi e alberghi, scheletri in muratura e in acciaio.

Poi, sullo sfondo, come ultimo baluardo a cui affidare lo sguardo, il Pilone, spezzato in due dalla scossa che aveva squarciato per sempre il volto di Capo Peloro. Da una parte la base, ormai del tutto ricoperta dalla vegetazione. Dall’altra, riverso per tre quarti sul fondale, quel che restava del pilastro, che emergeva e sprofondava dalle acque seguendo l’andirivieni delle onde e della marea. Sembrava un essere mostruoso spiaggiato, indeciso se lasciarsi andare alla corrente o rimanere ancorato a quella sfortunata zolla di terra.

Era lì, fra l’area del Lanternino e lo slargo che un tempo ospitava l’ex Sea flight, che Antonio amava trascorrere i suoi pomeriggi di gioco. Usciva di casa subito dopo pranzo e faceva ritorno solo poco prima di cena, con le ginocchia sbucciate, i vestiti logori e l’adrenalina che gli scorreva ancora nelle vene. Insieme a lui, a scorrazzare fra la battigia e la riva del lago, solcato da decine di uccelli e aironi, un esercito di bambini e bambine di ogni età, etnia e religione. Afgani e ganziroti, bianchi e neri, cinesi, arabi, cristiani: piccole creature ibride condannate dalla sorte a vivere la loro infanzia in quell’isolotto abbandonato in mezzo ai mari, fra il Canale e Messina, lo Stretto e l’Italia.

Anche il linguaggio era cambiato in quegli anni, stravolto da mille accenti e idiomi. A sopravvivere era rimasto solo il dialetto, che con il tempo era diventato una lingua universale utilizzata come pass partout per orientarsi in quella piccola e incomprensibile Babele che faceva da sottofondo sonoro alle zone più frequentate del Ghetto: il mercato del pesce vicino al molo, l’area araba a sud del lago, i vicoli profumati di spezie nei pressi del Comune.

Ed era in questi luoghi che Amir amava passeggiare appena sveglio, di primissima mattina, con le mani conserte dietro la schiena, gli occhiali da sole calati sopra quelli tondi da vista e quel suo strano modo di camminare – dondolando sulle punte – che gli era valso – ormai da troppi anni – un soprannome inequivocabile: u iaddu.

Quella mattina invece era diverso. Tutto sarebbe stato per sempre diverso. In quel momento Amir pensò che non si sarebbe più voluto muovere da quella terrazza. Sarebbe rimasto lì, immobile, con gli occhi fissi sul mare.

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Rientrò in casa solo alle 15, quando la voce squillante di Morgana proveniente dal soggiorno ebbe la meglio sul brusio della strada. In piedi accanto al divano, sua figlia stava mettendo in ordine le vecchie foto di famiglia, raccolte in piccoli raccoglitori colorati che con il tempo si erano sbiaditi. Accanto a lei il piccolo Antonio sfogliava un libro illustrato.

          La gente inizierà ad arrivare fra poco. Vestiti quantomeno. E lavati i capelli.

Abituato ai suoi modi diretti e un po’ bruschi, Amir guardò di sfuggita la propria immagine riflessa sul vetro e si sistemò la vestaglia.

            – Notizie di tuo fratello?

La donna alzò gli occhi, lo guardò giusto per un attimo e non rispose.

A differenza di Morgana, che era rimasta nel Ghetto, Nicola era andato via dall’Italia ormai da quasi 5 anni, e da allora era tornato a casa soltanto una volta, lo scorso Natale, portando con sé il compagno conosciuto durante un safari in Giordania. Cosa facesse per campare, Amir non lo aveva mai capito.

      – Vedrai che verrà, disse la ragazza dopo un po’, con un tono di voce più dolce.

Amir annuì e si diresse verso la cucina, quindi in bagno, in corridoio, nello studio e poi di nuovo in cucina, dove restò seduto a fissare il frigorifero che emetteva rumori sinistri. Doveva abitarle di fretta quelle stanze, per non pensare. E invece i pensieri vagavano nella sua testa esattamente come Amir vagava in quella casa silenziosa: come un’ape, in balìa del niente.

Mezz’ora dopo, dopo aver mangiato senza voglia gli avanzi del pranzo, si fece coraggio ed entrò in camera da letto. Il corpo di Miranda era riverso sopra un lenzuolo azzurro, perfettamente stirato. Ad occuparsi del vestito era stata Morgana, che aveva scelto un abito lungo e floreale, di quelli che la madre amava sfoggiare in primavera, abbinando il colore a quello delle mille cianfrusaglie che acquistava al mercatino domenicale, dagli zingari che venivano da Macondo.

Amir le si sedette accanto e le strinse la mano gelida. La moglie aveva i capelli bianchi e corti, le labbra sottili, la pelle corrosa dalla malattia, e sul lato sinistro del volto si intravedeva a malapena la stellina azzurra, nascosta fra i solchi delle rughe. Titubante, avvicinò lentamente il dito al tatuaggio e tenne fermo l’indice su quel punto, chiudendo gli occhi, sperando per un attimo che si attivasse un meccanismo magico e disumano; ma non accadde nulla.

Qualcuno suonò al citofono. Una, due, tre volte, e pian piano il silenzio nelle stanze attigue fu coperto da una cantilena di voci: vicini, amici, conoscenti. Per ultimi giunsero gli uomini delle pompe funebri, che riconobbe dal passo marziale e quasi solenne.

Amir non trovò la forza di alzarsi e rimase seduto accanto a Miranda.

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Il giorno dopo venne la “Lupa”, come i pescatori chiamavano dalla notte dei tempi la spessa e fitta coltre di nebbia che ogni tanto occultava alla vista la Calabria e Messina, di cui si intravedevano solo radi scorci offuscati.

Dirigendosi verso il molo con la sua camminata dondolante, con in mano la valigia logora di cuoio che Miranda gli aveva regalato ormai tanti anni fa, Amir pensò fosse giusto così, e in cuor suo sperò che quella cappa di luce bianca e opaca inghiotisse tutto quanto. Poi si pentì di quel pensiero e cambiò idea:  «Solo me. Deve ighiottire solo me».

L’aliscafo, dapprima invisibile, apparve di colpo a pochi metri dall’approdo, in una silhouette scura. L’uomo si fermò un attimo ad annusare la salsedine, come se volesse farne scorta per i tempi futuri, ora che la vita era tornata a farsi pesante e gli si schiacciava addosso di nuovo, dolorosa, asfissiante: da quando Miranda non c’era più era come se un’urgenza improvvisa lo avesse travolto, e per la prima volta dopo tanto tempo aveva avuto la netta sensazione che l’Amir di un tempo fosse tornato a tormentarlo, furiosamente.

Mentre l’aliscafo stava finendo di fagocitare quei pochi che come zombie attraversavano ogni mattina il Grande Strappo, i suoi capelli bianchi impastati dal vento gli finirono dentro gli occhi. Amir si calò gli occhiali da sole su quelli da vista, a pesargli sul naso aquilino, e poi si voltò per l’ultima volta. Il suo sguardo corse rapidamente lungo il litorale deserto e indugiò in fondo, verso la carcassa metallica del Pilone, e giusto per un istante gli balenò fulminea l’immagine di Nicola bambino che saliva fin lassù, come un ragnetto operoso, fino a dove l’acqua gli arrivava al collo.

Quindi chiuse gli occhi e salì sulla barca, lasciando che la nebbia lo prendesse.

Chissà se avrebbe mai più rivisto il Ghetto.

(Continua, forse)

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