di Claudio Staiti

MESSINA. 16 agosto 1916. Dopo aver attraversato «lo stretto in piroscafo tutti ristorati dalla brezza», Giacomo Matteotti passa la prima notte a Messina, nell’albergo “Regina Elena”, «tutto in legno, ma con belle camerettine, e tutto pulito ed elegante, proprio come un grande albergo di stazione climatica».

Il politico socialista non è stato mandato nella città siciliana in vacanza, ma come punizione, e per essere meglio tenuto sott’occhio. Al nord infuria la battaglia contro gli Imperi Centrali (Austria e Germania) e lui, rimasto sino alla fine fedele alla causa della non belligeranza, giudicato dal Comando Supremo un «violento agitatore», è stato allontanato dalla zona di guerra e anche dalle retrovie, in quanto considerato individuo particolarmente pericoloso, e mandato, in una sorta di “confino militare”, nella città di Messina, appena pochi mesi dopo il matrimonio con la poetessa Velia Titta (1890-1938).

A guardia di uno Stretto, importante via di transito per navigli civili e militari, Messina era stata subito considerata obiettivo sensibile di potenziali attacchi nemici (navali e aerei). La presenza di ben dodici pezzi di artiglieria lungo la costa (otto a Torre Faro, con centoventi soldati e due ufficiali di personale, quattro a Tremestieri, con ottantacinque soldati e due ufficiali), oltre alle diverse batterie collocate, già prima della guerra, sui forti della Piazzaforte, che richiesero la presenza di altre centinaia di soldati, di fatto, l’avrebbero resa, in quegli anni, la città più militarizzata della Sicilia. Qui Matteotti vi resterà per quasi tre anni, «arbitrariamente sottratto alla vita familiare, ad ogni impegno pubblico, e costretto ad un esilio forzato, alla avvilente inerzia di una lungamente protratta solitudine», per usare le parole dello storico Stefano Caretti, che nel 1986 ha curato la pubblicazione del ricco corpus di lettere scritte da Matteotti alla moglie durante gli anni del fidanzamento e matrimonio (1912-1916), sotto le armi (1916-1919) e nel dopoguerra (1919-1924) nel volume Lettere a Velia, ristampato nel 2021 dalla Pisa University Press.

Quella con la moglie dalla città peloritana fu senz’altro una corrispondenza “salvifica”. Le lettere di questo periodo, ha scritto il filosofo Eugenio Garin, «con la loro spontaneità, con i loro abbandoni affettivi, con la freschezza dei sentimenti, trasformano un diario quasi quotidiano in un documento di serena dignità nel sopportare un’ingiustizia così amara, che senza retorica, e quasi sempre per sottinteso, viene considerata ben piccola cosa se paragonata alla tragedia di chi uccide ed è ucciso nella guerra». Il dramma del conflitto, infatti, resta «sempre nello sfondo», «si sente ma non si fa mai incubo disumano».

I primi giorni di Matteotti a Messina sono segnati dalla diffidenza verso i suoi nuovi commilitoni: «L’allievo caporale Schiaccianoci (proprio così) è venuto or ora a dirmi: “Lei se n’infischia troppo dei colleghi”. Infatti, li tratto proprio tutti a grande distanza. Mi piace poco tutta questa gente; gridano, si sbracciano, sono ignoranti; e i più istruiti sono i più antipatici. […] Sono infatti quasi tutti volontari di un anno; tutti siciliani o calabresi, meno due o tre. Caporali e sergenti, meno qualche eccezione abbastanza villani; ma il mio contegno li tiene in rispetto. Tanto più che si rompono il capo per capire la ragione di questo mio passaggio così eccezionale a Messina». Solo dopo qualche tempo, il trentunenne veneto inizia a tessere le prime relazioni, arrivando a farsi conoscere, sebbene di nascosto, anche per le sue idee: «Ieri un giovane mi ha mandato a chiamare in segreto: aveva udito dal capitano che c’era quassù un socialista… pericoloso, e allora egli ha preso nota del nome e mi ha chiamato tutto contento per dirmi che anche lui da un anno era entrato nel partito socialista e sperava di stare spesso insieme con me. Il colloquio simpaticissimo aveva quassù un sapore delizioso di congiura, di novantotto, di catacombe».

A fine agosto è trasferito «con un altro dei soliti ordini improvvisi» in una delle fortezze che domina lo Stretto, a Campo Inglese, come testimonia una delle due fotografie qui pubblicate (l’altra lo raffigura durante un’esercitazione militare nella Batteria di Monte Gallo) e tratte dal recente volume curato da Stefano Caretti e Jaka Makuc, Matteotti si racconta. La famiglia, gli studi, la politica (Pisa University Press, 2022). Qui è arruolato nella 97ª compagnia del 4° reggimento artiglieria da fortezza, con la qualifica di goniometrista.

Chiuso in quel forte, la «più grande aspirazione» di quel luogo diventa la gita domenicale nella città che soltanto otto anni prima era stata rasa al suolo da un gravissimo sisma. «Messina non l’ho ancora vista – aveva scritto appena arrivato alla moglie – ancora, cioè non mi ci raccapezzo nel viluppo del vecchio e del nuovo. Graziose le casettine tutte di legno e relativamente molto pulite sulle strade nuove ad angoli retti con il mare pieno di sole giù nel fondo verso Reggio Calabria».

«Tu – le avrebbe detto più avanti riguardo a quei luoghi – diresti certo che son tristi; e con tante rovine infatti. Ma il mare è bello. Stasera forse vado a fare un bagno. Con una città così e con tanti soldati, c’è appena una piccola e miserabile baracca di legno per bagnanti». Matteotti viene, infatti, da subito colpito dai colori del mare sia di giorno («Dalla finestra della piccola camera dove ti scrivo, si vede la Costa di Calabria e il mare, abbastanza belli») che di sera («Che bel tramonto stasera: il sole attenuato dai vapori e la costa di là striata di luci diverse») e arriva a pensare, con una certa ironia, che in fondo dovrebbe «esser grato al Ministero che [gli] procura una simile villeggiatura da mezza estate». Così, nel settembre del ’16, confida alla moglie: «Oggi ho fatto una lunga escursione; cioè… da Scilla a Cariddi. Veramente: sono disceso a piedi verso Punta Faro e di là in barca a vela fin quasi a Scilla. […] A un certo punto in mezzo allo stretto il vento non tirava più e la barca seguiva la corrente verso Messina; ma poi di nuovo forte ci ha portati presto a terra, mentre al largo passava una corazzata francese grigio-nera e fumosa. Indi coll’asino (ormai sono diventato un eccellente cavaliere del medesimo) sono risalito a Campo Inglese, in tempo per avere la tua lettera, che aspetto sempre ogni giorno come il migliore momento».

La curiosità e l’interesse lo spingono a voler visitare anche altri dintorni della città e tornare spesso alla «punta estrema della Sicilia, che si vede di qui, col villaggio di Ganzirri che ha dietro di sé due piccoli laghi spesso popolati di barchette da pesca come puntini neri disseminati. Di là si ritorna a Messina con un trenino che corre lungo la riva del mare; e da Messina a qui in automobile come si fa di solito per gruppi dai soldati che discendono la domenica».

Nel corso della sua presenza a Messina, Matteotti si muove tra diverse località: è dislocato soprattutto nei forti, dopo Campo Inglese, a Forte Campone (Calvaruso), poi al Forte Monte dei Centri (Salice), e quindi a Capo Rasocolmo (Piano Torre-Spartà). Qui, incantato dal paesaggio, svela una certa nostalgia per il suo Veneto: «La posizione è bella: proprio un promontorio a picco sul mare. Il mare è proprio sotto quasi come si vedesse dal campanile di S. Marco la piazza. […] Stasera in mare è una meraviglia; c’è una lunga fila di barche tutte illuminate per la pesca; par d’essere a Venezia». Dal novembre del 1917 è trasferito presso la batteria di Monte Gallo (Forte Cavalli, Larderia), e quando a dicembre arriva la neve, «guardando ad Antennamare» gli «sembra di esser vicino alle alpi». Infine, dall’agosto del 1918 è a Gazzi, sul mare («di mezzo c’è solo la linea ferroviaria»), e qui resterà sino alla fine della guerra.

Durante la sua permanenza in quei luoghi, Matteotti, avversario della guerra, non può non rivelare la sua tristezza per la partenza di moltissimi giovani, mandati a combattere e a morire al fronte. «Dicono che da Messina sono partiti oltre 400 artiglieri tutti giovani di 20 anni – col casco di ferro» scrive nel novembre 1917, aggiungendo che, sebbene sia arrivata una circolare «chiedente agli ufficiali se vogliono andar volontari alla difesa costiera di Venezia», nessuno si è proposto, «nemmeno quello che fa i discorsi e le discussioni patriottiche».

Egli si dimostra inoltre testimone di avvenimenti ai quali assiste rassegnato e disilluso. «Messina – scrive il 21 luglio del ’18 – è tutta illuminata stasera per i festeggiamenti a Rizzo [Luigi, affondatore, il mese prima, della corazzata austriaca Szent István, ndr]; come al solito stanno travolgendo un atto buono in una mascherata».

Anche se non mancano gli scontri con i superiori – come quando vorrebbe consegnare una relazione al comandante della piazzaforte sulle condizioni igieniche del suo dormitorio e il suo capitano lo manda in prigione – il suo rapporto con gli ufficiali è sempre improntato al rispetto: «Giorni fa la divisione (cioè il generale) ha chiesto le informazioni su tutti gli internati politici. E il capitano ha chiamato proprio me in segreto a stendere il rapporto, dicendomi di mettere per me tutte le lodi. Nientemeno! Se avessi lo specchio, mi guarderei per vedere se sono davvero diventato un buon militare. Dalla lunghezza del barbone, certo che sì».

Matteotti si interessa anche della sorte dei figli di alcune delle donne del luogo, prigionieri in Austria, scrivendo «lettere o istanze a questo o quel ministero o comando». «Stamattina il padrone della casina di Montegallo mi ha portato un cestello d’uva – sempre perché io gli faccia ritornare il figlio dal fronte. Non si vogliono persuadere che io non posso nulla – e ho quasi rimorso a mangiar l’uva». Inoltre, decide di attrezzare in uno dei campi in cui è “internato” una scuola per soldati analfabeti ai quali insegna a leggere e a scrivere. Anzi, per sopperire alle mancanze dei superiori («intendevano farla con una sola lavagna e i soldati in piedi senza carta né penne»), si occupa personalmente di mettere insieme delle tavole e compra l’occorrente. Matteotti crede molto nel valore del sapere: in un’altra lettera, racconta alla moglie, tra il serio e il faceto, che ritornando, «al chiaro di luna» al forte in cui risiedeva, aveva «insegnato la tavola pitagorica al [suo] asinaro». «In fondo – è la sua conclusione – sono proprio contento di essere vissuto qualche tempo proprio in mezzo a queste popolazioni per conoscerle e apprezzarle direttamente. Peccato però perché sarebbero intelligenti e guidati bene potrebbero esser buoni». La sua riflessione sul carattere dei siciliani emerge ancora più avanti, quando racconta di un piccolo furto subito: «Sai Chini [Chini, Chinina è il vezzeggiativo per la moglie, ndr] che mi hanno rubato il burro e la marmellata? Avevo lasciato una scatola e ½ di burro e 2 di marmellata a Montegallo, nei corridoi freschi della batteria, perché qui mi sarebbero diventati acidi per il caldo. C’erano stati per 6 mesi, fin che c’ero io e nessuno li aveva toccati. Ora che li avevo affidati al sergente di guardia rimasto là, mi mandano a dire che non le trovano più. È del resto conforme alla vera psicologia siciliana: al forestiero non toccano un capello, ma al proprio compaesano rubano subito quel che possono, perché tra loro rubare non significa compiere un’azione disonesta ma dare una prova di abilità sull’altro che resta fatto “fesso” come essi dicono».

Il tempo passato a Messina è per Matteotti un intenso «periodo di creazione» in cui può scrivere e dedicarsi a numerosi lavori in campo giuridico ma è soprattutto un tempo di «vita certosina» e di reclusione forzata in cui il socialista veneto avverte che non può «avere i desideri, le battaglie le azioni della politica, i desideri e le speranze della scienza sono troppo lunghe a maturarle» e la moglie, Velia, è quindi «l’unico lume che vedo, che sogno, che aspetto, che spero: tu non sai quanto bene mi fai, quanta gioia è la mia per te anche nella lontananza di questi giorni». Alla fine del settembre 1916 i due si erano rivisti dopo tanto, ed erano iniziati i loro incontri “clandestini” della domenica, nel centro di Messina, appuntamenti tanto attesi che si interromperanno però per la gravidanza di Velia, tra il 1917 e il 1918, quando viene alla luce il loro primogenito, Carlo (chiamato Strombolicchio ancora prima della nascita a ricordo di una gita nell’isola delle Eolie), e a causa della febbre spagnola che colpisce la donna poco dopo. All’amata dedica parole dolci e profonde ed è in questo frangente che comprende davvero quanto nella sua vita lei sia «un gran fondamento, una grande forza che riempie tutto quel vuoto che prima sentivo sempre sotto di me, appena una straordinaria attività cessava e ripiegavo su me stesso». Sa anche essere ironico come quando scrive: «Ti dirò che il Giaki [vezzeggiativo per Giacomo, ndr] appena arrivato a Divieto ha fatto conoscenza con una bella signora che gli ha offerto dell’uva; e ieri sera con due belle signorine! Il male è che ho confessato di essere ammogliato». Dalle lettere emerge una certa tristezza («darei volentieri gran parte di quello che possediamo purché ci ridonassero la nostra vita»), ma anche fiducia su ciò che il futuro riserverà loro dopo questi anni “rubati”: «Vedrai che la libertà ci ridonerà tutta la nostra vita e il nostro amore; come fiori conservati intatti sotto la neve e sotto le valanghe». Da qui l’invito a sopportare «soltanto una piccola serie di difficoltà materiali; poi verrà la vita del nostro sogno: la senti, Velia mia, nella carezza che mi resta nella mano sola?».

L’ultima lettera “militare” fu spedita alla moglie il 3 marzo 1919. Successivamente Matteotti fu inviato in licenza e infine in congedo illimitato il 16 agosto. Nonostante la sua posizione pacifista e il “confino” siciliano, gli sarebbe stato rilasciato un attestato di «buona condotta e di aver servito con fedeltà e onore». Matteotti poi fu pronto a tornare, a pieno titolo, nell’agone politico del Paese, eletto in Parlamento per la prima volta nel 1919, e poi nuovamente nel 1921 e nel 1924, sino ad andare incontro, all’età di 39 anni, a una barbara e prematura fine. Dopo le sue denunce dei brogli elettorali e della violenza messi in atto dal nascente regime di Benito Mussolini, il 10 giugno 1924 venne rapito e assassinato da una squadra fascista.

 

 

Nella foto in copertina Giacomo Matteotti a Campo Inglese. Nella foto sopra il socialista nella Batteria di Monte Gallo

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