Se Milano ha la sua via Renzo e Lucia, Roma la sua via Norma, e Napoli una via Pinocchio, se a Siracusa hanno dedicato vie a Ulisse e Patroclo, ad Agrigento a Mattia Pascal ,e ad Acitrezza ai Malavoglia, la nostra città meriterebbe certamente una via Lisabetta da Messina.

La storia di Lisabetta è ambientata in un momento molto buio per tutto l’Occidente. Un momento che in qualche modo può ricordarci quello attuale, ma con proporzioni che, nonostante le recenti esperienze, non riusciamo nemmeno lontanamente a immaginare. È il 1347 e la grande pandemia di Peste Nera si affaccia in Europa. Nel giro di pochi anni, una persona su tre morirà divorata dalla misteriosa malattia che lascia bubboni neri sulla pelle e attacca violentemente i polmoni. Mieterà almeno venti milioni di morti causando, verosimilmente, la più grande crisi che la storia dell’umanità si fosse mai trovata ad affrontare fino a quel momento. Ad aprire le porte dell’Europa al batterio trasportato dai ratti è una città marinara, attiva nei commerci con l’oriente: Messina. Proprio nella nostra città prende l’avvio il contagio in occidente. A causarlo, l’ingresso nella Falce di dodici galee genovesi provenienti dalla Crimea.

Sul Mar Nero, nella colonia genovese di Caffa, la moderna Feodosia, la prima guerra batteriologica della storia si stava consumando. Gli assedianti tatari, guidati dal Khan Gani Bek, non esitavano a lanciare con catapulte cadaveri di appestati all’interno delle mura genovesi.

Dal momento dell’approdo della Peste a Messina, sarebbe stato un diffondersi rapidissimo, prima in tutta la Sicilia e nei principali porti del Mediterraneo, poi praticamente in tutta Europa. Solo Milano riuscì a contenere i danni, sperimentando il primo lockdown della storia.

Giovanni Boccaccio (anch’egli colpevolmente dimenticato dalla odonomastica messinese, non solo per le sue qualità universali – è tra i padri della lingua italiana – ma anche per i motivi specifici che esporremo più avanti) ambienta la sua opera più celebre, il Decameron, nel 1348, quando la Peste ha raggiunto le porte di Firenze. In questa cornice, dieci ragazzi, sette donne e tre uomini, si ritirano in campagna per sfuggire al morbo e, per trascorrere il tempo, si raccontano novelle. Fu probabilmente il ruolo, fatidico e drammatico, di Messina nell’evoluzione della malattia a invitare Boccaccio ad ambientare sullo Stretto una delle sue novelle più note, Lisabetta da Messina, appunto.

Lisabetta appartiene a una ricca famiglia toscana, trasferitasi a Messina, come spesso accadeva, a causa della fiorente attività di lavorazione e commercio della lana. La giovane rimane vittima della prepotenza violenta dei fratelli che, appreso dell’invaghimento di lei nei confronti di un ragazzo di umili origini di nome Lorenzo, non esitano ad assassinarlo e a nasconderne il cadavere. Lorenzo, apparendo però in sogno a Lisabetta, le svela l’accaduto e il luogo in cui il proprio corpo giace.  La reazione di Lisabetta è di una forza drammatica sconvolgente. Non resta passiva al giogo tirannico dei fratelli, ma, recuperati i resti, li seppellisce degnamente portando con sé la testa di Lorenzo, che cela dentro un vaso di basilico. Da quel momento si prende cura della pianta, che cresce sempre più rigogliosa, annaffiandola con acqua di rose e d’arancio e con le proprie lacrime. Scoperto, però il macabro, ancorché amorevole, nascondiglio, i fratelli le sottraggono la testa e fuggono spaventati a Napoli, lasciando la povera Lisabetta morire di dolore.

I primi versi di una canzone popolare, evidentemente molto nota ai tempi di Boccaccio, chiudono la novella:

Qual esso fu lo malo cristiano
che mi furò la grasta…”

La canzone che, sebbene diffusa in tutta Italia tradisce un’evidente provenienza siciliana (“malo cristiano”, “grasta”), probabilmente aveva lo scopo di dare una spiegazione popolare all’intensa aromaticità propria delle piante di basilico. Erano le lacrime di dolore di Lisabetta a conferire alla pianta il suo inconfondibile profumo.

Dando fede ad un’altra, più antica, versione, secondo cui l’amore impossibile derivasse dall’origine saracena del povero Lorenzo, la “grasta” di Lisabetta rimarrà celebre nella sua forma di Testa di Moro, il vaso simbolo della regione, uno dei più grandi vanti dei maestri artigiani di Santo Stefano di Camastra e Caltagirone. L’agire coraggioso di Lisabetta è dunque, in un sol gesto, un atto di ribellione ai rigidi codici del suo tempo, sovvertendo le gerarchie nei rapporti tra sessi, ceti sociali ed etnie.

Tornando a Boccaccio, egli, nel suo De mulieribus claris (Trattato sulle donne illustri), parlerà di un’altra illustre, e non meno nobile, nostra concittadina: Camiola Turinga. Camiola (o Cameola) fu autrice di un gesto di straordinaria forza. Essendo Orlando, fratellastro del Re di Sicilia Pietro II, rimasto prigioniero degli Angioini in seguito a una battaglia alle Eolie ed essendosi il Re rifiutato di pagarne il riscatto, in quanto Orlando responsabile della disfatta, la ricca Camiola si offrì di provvedere al pagamento, a condizione che lui la sposasse.

Una volta libero però, Orlando si rifiuta di convolare a nozze con una donna di rango inferiore per nobiltà. Camiola, dapprima impugna dinnanzi al tribunale il rifiuto di Orlando e ottiene dai giudici il rispetto dell’accordo sottoscritto, per poi, il giorno delle nozze, lasciare lo sposo indegno sull’altare, senza pretender null’altro in cambio del suo generoso gesto.

Con la restante parte del patrimonio personale, Camiola Turinga finanzia la costruzione del monastero di Santa Maria di Basicò, sul colle della Caperrina, dove si ritirerà a vita monacale. A Camiola Turinga è dedicata una piccola via, tra viale Giostra e via Bellinzona.

Curiosamente, nello stesso De mulieribus claris, Boccaccio attribuisce natali messinesi anche a Semiamira (o Giulia Soemia), controversa e intrigante madre dell’imperatore Eliogabalo che di fatto resse l’Impero Romano dal 218 al 222 d.C. Nonostante la storiografia ufficiale concordi largamente sulle origini siriane di Semiamira, sembra davvero strano che il dotto Boccaccio, peraltro ottimo conoscitore della storia siciliana, potesse aver preso un così grande abbaglio senza aver avuto motivi fondati per dare questa indicazione, attingendo a fonti ormai non più disponibili. Ma questa è un’altra storia…

FiGi