Nei giorni scorsi, oziando su Facebook, mi sono imbattuto in un articolo pubblicato sul “Messaggero” (ma non solo) in cui si parlava della fantomatica generazione Xennial, ovvero quella compresa tra il 1977 e il 1983.
Si tratta, si legge online, di tutti quei giovani (più o meno) nati a cavallo tra la Generazione X, l’ultima prima dell’avvento del digitale, e quella dei Millennial, che non ricordano il mondo com’era prima di Internet.
Una nidiata estremamente fortunata, pare.
Lo sostiene un professore associato all’Università di Melbourne, tale Dan Woodman, secondo il quale i trentacinquenni di oggi sono riusciti ad attraversare con successo la fine di un’era e l’inizio di un’altra, passando senza colpo ferire dalle cassette audio alla musica digitale, dal classico telefono fisso con la rotellina della nonna all’Iphone 7 plus. Bello. Tutto molto bello.
Leggo il pezzo, mi soffermo sul titolo (“La generazione Xennial è la migliore”. Così.Tranchant) e mi sento galvanizzato. Quasi mi commuovo. Apprendo di non avere né il pessimismo dei miei predecessori né l’ottimismo (odioso) dei nativi digitali, di aver saputo mettere a frutto le mie esperienze passate “per guardare con uno sguardo tutto particolare il futuro previsto dai film di quando ero bambino” e soprattutto di essere “il simbolo vivente della capacità di adattamento dell’uomo”. Roba seria. Che se il buon Darwin fosse ancora vivo probabilmente ci scriverebbe un saggio: “Dalle testuggini delle Galapagos ai trentasettenni di oggi. Una prospettiva evoluzionistica”.
Sono notizie come queste che ti mettono in pace con il mondo. L’essere sopravvissuti all’avvento degli Mp3. E chi se ne frega se questa fortunatissima generazione di transito, la migliore fra tutte, pensa un po’ che culo, sia stata condannata a vivere in una sorta di terra di mezzo che ci fa sentire costantemente inadeguati. Troppo giovani e troppo vecchi, troppo preparati e troppo inesperti, troppo maturi e troppo baitti, troppo digitali e troppo analogici. Siamo degli ossimori in carne e ossa, noi Xennial generation: socialmente vivi e socialmente morti. Contemporaneamente. Come il gatto di Schrödinger.
E che dire di noi messinesi? Di tre quarti dei miei coetanei – gente con una o due lauree, qualche master, vari corsi di specializzazione e innumerevoli esperienze come tirocinanti/stagisti/schiavi/servi della gleba – che convivono con la certezza che il peggio, purtroppo, dovrà ancora arrivare? C’è chi tenta periodicamente la sorte dei concorsoni pubblici (del tipo 8 posti disponibili, 30mila partecipanti. Credici), chi prova a programmare il futuro sognando cose che per i nostri nonni muratori con la quinta elementare erano il minimo sindacale (una casa, per esempio), chi ormai è così scoraggiato da non provarci nemmeno più, chi declina gli studi sulla termodinamica per una corretta cottura degli hamburger da McDonald, e chi, infine, c’ha sempre quel vecchio pallino di aprirsi un’attività commerciale, ché di arancini, pitoni e focaccia in città non è morto mai nessuno.
Poi c’è chi decide di andar via. Più lontano possibile. In un posto in cui magari l’estrema fortuna di essere degli Xennial – strani minotauri della contemporaneità – possa davvero portare i suoi frutti, come teorizza il buon Woodman. La cosa più avvilente, in tutto questo, è che tanti ultratrentenni si accontentano persino di lavare i piatti, pur di vivere all’estero. Purché, fra una forchetta unta e una teglia da scrostare, possano ancora coltivare il sogno – solo quello, forse – di potercela fare. Un diritto sacrosanto che a queste latitudini è divenuto quasi un lusso, un tarlo adolescenziale, uno sghiribizzo che la sorte non ci ha concesso nemmeno il diritto di coltivare.
La verità – virtuale o ontologica che sia – è che la mia generazione, almeno da queste parti, ha perso. Sei a zero, con tanto di melina finale e sfottò degli avversari sugli spalti. Ed è per questo, forse, che leggendo certe tesi – divenute virali – ci si sente quasi sbeffeggiati. Sopraffatti dalla vaga, sottile, urticante sensazione che qualcuno ci stia prendendo seriamente per il culo.