Il mio rapporto d’amore con la granita di caffè con panna (qui da noi a menza c’a panna) è un rapporto multidecennale, ha ormai superato abbondantemente il mezzo secolo. Ricordo come da giovane (diciamo un picciottello di sedici anni) quando i miei genitori si trasferivano nella casa di campagna, lasciandomi unico e felice proprietario della casa di città, fosse mio costume recarmi almeno tre volte a settimana al Ritrovo Irrera per acquistare tre granite, e poi giunto a casa riversare il contenuto dei tre bicchieri in un’unica ciotola (una cuppa, quando non addirittura un baunu) per poter gustare, da perfetto e non pentito gaudente, quella delizia di panna e caffè che sembrava non dovesse mai aver fine…

Una volta cresciuto negli anni, tanticchia di rimorso per quelle giovanili abbuffate mi indusse a più miti consigli, facendomi rassegnare a un solo bicchiere di granita, che però continuavo (e continuo tuttora) pervicacemente a consumare senza tener conto delle stagioni. Per me la menza c’a panna doveva essere nutrimento prelibato disponibile tutto l’anno, inverno compreso. E quindi ho preso l’abitudine di non lesinarmi una, due, tre volte a settimana questa delizia.

Affermava Lamarck che un organo si sviluppa quanto più è utilizzato. In me l’utilizzo continuativo di granite ha prodotto non tanto uno sviluppo degli organi, lingua e papille gustative, quanto piuttosto la progressiva maturazione di un sapere, una sapienza nelle modalità di consumazione. Ho così sviluppato, e sempre più sedimentato nelle mie sinapsi alcune tecniche, trasformatesi presto in regole, volte a rendere sempre più gratificanti i momenti dedicati a questa pausa celestiale in cui la granita passa dal bicchiere allo stomaco. Da qui, le raccomandazioni per l’uso che seguono, certamente frutto di empirie e come tali non aspiranti all’assolutezza, ma che – in tema di generoso amarcord mi sento di proporre.

Come si mangia, come si gusta una granita con panna? È in primo luogo importante, direi quasi fondamentale, poter disporre di una brioche (qui da noi brioscia) da accompagnare alla gustazione. In assenza di essa si può certo ripiegare su un panino al burro o, faute de mieux, su quattro o cinque biscotti all’anice o savoiardi, ma – credetemi in fiducia – l’effetto non sarà lo stesso e vi rimarrà la sensazione di aver tradito la vocazione di quegli ingredienti.

La brioscia sta alla granita come una pala o una zappa stanno al terreno da dissodare. Essa infatti, a partire dal suo tuppo, va utilizzata per scavare con dolcezza nello strato superficiale di panna con andamento continuo e sinuoso, teso a raccoglierne piccole quantità e al contempo a effettuare un’accurata pulizia dell’orlo del bicchiere e delle parti sue interne che, venendosi progressivamente a svuotare, hanno da rimanere perfettamente pulite, senza antiestetiche tracce di panna. Ho sempre ritenuto che tale operazione di pulizia – che per me costituisce anche una politesse fosse essenziale al fine di non determinare disturbo alcuno di carattere visivo man mano che si procedeva nello scavo.

Il tuppo finisce rapidamente. È segno di grande perizia tecnica farne coincidere il consumo con la fine dello strato di panna. Dopo di che si attacca a raccogliere il caffè, in forma più o meno granulosa – o addirittura mantecata – a seconda del Bar in cui ci si trova, servendosi di strisce oblunghe strappate al corpo principale della brioscia.

A tale operazione occorre prestare la massima attenzione onde evitare che parti di granita possano fuoriuscire dalle morbide “palette” utilizzate e finire per terra o sul tavolo. Ogni perdita di esse va registrata come un’onta alla propria perizia e pur tuttavia dolorosamente accettata alla stregua dei tanti scacchi che la vita ci riserva.

Poiché di solito la brioscia tende a consumarsi più lentamente della granita, anche qui deve soccorrere una perizia, direi di ordine alchemico, nel contemperare le dosi bilanciando opportunamente i tocchetti via via prelevati di brioscia e le quantità via via raccolte di granita. Lo scopo ultimo di tale delicata operazione (direi, a occhio e croce, paragonabile all’aufheben di Hegel, un “togliere e conservare”) è quello di far finire la brioscia prima della granita in maniera tale che di quest’ultima nel bicchiere rimanga almeno un dito e mezzo. Tale prezioso residuo consentirà all’accorto golosone di poter sorbire la granita rimasta nella sua purezza, essenzialità, in ciò che potrebbe definirsi, utilizzando un termine indù, il suo Ātman.

Qui pongo fine alle presenti note, dedicate a tutti coloro che a Messina (e solo a Messina, ricordiamolo!) ha ancora il privilegio di gustare, dimenticando per una volta le brutture della città, una pietanza degna, affémia, di essere iscritta dall’Unesco nel novero dei beni materiali, immateriali, spirituali dell’umanità.

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments