Matteo Salvini ha concluso, nella maniera scomposta che gli è propria, la sua esperienza di governo con i Cinquestelle. E pur avendo lui, di propria iniziativa, deciso di staccare la spina a un esperimento che gli ha fruttato il raddoppio dei voti, già strepita che grillini e PD abbiano montato una sorta di complotto per tenerlo all’opposizione per l’intera legislatura. Ma cosa si aspettava, che l’intero Parlamento gli distendesse un red carpet per renderne visibile l’apoteosi? Questo possono farlo solo i sodali del centrodestra, la sempre più lepeniana Meloni e il sempre più imbolsonito Berlusconi, la prima da sempre desiderosa di rientrare nella stanza dei bottoni con un incarico da ministro (che ha già ricoperto), il secondo in cerca di un miracolo che lo faccia risuscitare dal sepolcro in cui giace da tempo.

La verità è che nella politica italiana spesso il teatro, la rappresentazione, fanno spesso le veci della realtà. Alcuni anni or sono (sembra passato un secolo) un arrogante drappello di pentastellati chiuse sprezzantemente la porta ad un ragionevole Bersani che intendeva ricercare con loro alcuni obiettivi in comune sui quali poter sperimentare un’alleanza di governo. Il rifiuto dei ragazzotti sortì le anomale alleanze con Berlusconi, Verdini, Alfano, aggravando la perniciosa mutazione del Partito Democratico in una direzione conservatrice e padronale che ne allontanò buona parte di un elettorato sentitosi tradito. Qualche anno dopo (aveva ragione Marx, la prima volta è tragedia, la seconda farsa) la pantomima si inverte. Cinquestelle primo partito si rivolge al PD per governare insieme e riceve da un arrogante e inconcludente Renzi un no che produce al Paese i quindici mesi di oscena alleanza gialloverde che oggi ci troviamo per fortuna alle spalle.

Il teatro, anzi il teatrino cui ci hanno resi assuefatti i politici dei nostri tempi riserva però sorprese. Quello degli ultimi mesi ha mostrato un salto di qualità notevolissimo. Con l’appena dimissionario sfiduciatore ministro degli interni ha dispiegato e toccato punte di sublimità. Presso i romantici il sentimento del sublime era quel moto dell’animo che prendeva l’uomo allorquando questi si poneva a contemplare la natura. Il sublime era anche percepito come il sentimento di stupore rispetto a un continuo superamento degli orizzonti – esperienza che appunto la natura nei suoi aspetti “selvaggi” rendeva possibile – e al contempo la consapevolezza dell’umana inadeguatezza a controllare in qualche modo tale vastità di prospettive e profondità di abissi.

Matteo Salvini, da quando ha assunto il ruolo di salvatore della patria (prima i lombardi, anzi i veneti, anzi gli emiliani, anzi i toscani, anzi i calabresi, anzi i sardi, e via dicendo), ci ha ormai resi assuefatti a tale esperienza, per vivere la quale i nostri antenati ottocenteschi dovevano raggiungere plaghe solitarie e vette innevate. Quando infatti ci sembra di avere ormai assistito a tutto quello che era umanamente possibile immaginare e sperimentare, questo capopopolo ci dischiude orizzonti sempre più ampi e vertiginosi. Dite la verità, cari lettori, chi mai avrebbe qualche anno fa ritenuto possibile un siffatto brutale e spregiudicato esercizio del potere? E un cinismo cialtrone insuperato e insuperabile, come si è visto con la pantomima della bambina esibita da un palco elettorale, per di più in una veste che si è rivelata non sua.

Un potere dunque con tutta evidenza esercitato proponendo “narrazioni” alla Vanna Marchi, rappresentazioni distorte e consapevolmente falsate della realtà, e slogan. Dieci o poco più di frasi a effetto, espresse con un cipiglio truce come quello del Duce. Quest’ultimo, mischino, ci appare adesso quasi un apprendista a cospetto di questo politico mal cresciuto che non ha mai svolto attività lavorative se non quella – in verità anch’essa impegnativa – di suscitare paure e promuovere odio tra i cittadini.

Ma Salvini non è solo nella sua quotidiana lotta d’inquinamento della politica. L’altro Matteo, con il suo recentissimo Renxit, ha gettato la maschera rivelando come, a dispetto delle sonore sconfitte politiche subite negli ultimi anni, coltivi ancora fervidi progetti da modesto Rais di quartiere (Malo hic esse primus quam Romae secundus). Non pago di avere semirottamato un partito egli si accinge adesso a completare l’intera operazione con la sinistra tutta. Pallido imitatore del glorioso Bettino Craxi egli è convinto di poter assurgere ad ago della bilancia in qualche modo garante della recente maggioranza di governo, che presumibilmente progetta di tenere sotto scacco – e sotto ricatto – per i prossimi quattro anni. E non è detto che non ci riesca, attesa la debolezza e l’eterogeneità di quest’ultima.

Una cosa è certa, ed è questa. I due Mattei, a dispetto delle loro rispettive struggles for life, non passeranno alla storia se non come due arruffoni che hanno portato indietro di almeno un decennio le lancette della cultura politica italiana. Piccoli uomini che invece di lavorare – da destra e da sinistra – a migliorare la qualità del proprio elettorato hanno speso ogni energia per abbassare al proprio livello il comune sentire per poter contare su greggi di ottusi adoratori piuttosto che aver a che fare con consapevoli esponenti di una società civile degna di questo nome.

Quello che rischia invece di passare alla storia è, ahimé, il terzo Matteo, quel Messina Denaro che godendo di complicità innominabili da decenni fa la primula rossa continuando a gestire il malaffare in una dimensione ormai sovranazionale. Costui è ormai assurto al ruolo di convitato di pietra. Non si vede, ma potrebbe esser presente dietro tutte le malandrinerie che si perpetrano quotidianamente nel Paese. Intanto l’Italia veleggia col vento sempre in poppa nella graduatoria europea della criminalità e della corruzione. Ad aprire il TG Regionale, tanto per rimanere dalle nostre parti, nove notizie su dieci sono di cronaca nera o di ordinaria delinquenza. Se poi ci muoviamo su scala nazionale le cose non vanno meglio.

Si dirà: ma cosa c’entra il superlatitante con questo degrado generale del Paese? C’entra, c’entra… Dostoevskij ci ricorda, attraverso le parole di Ivan Karamazov, che Se Dio non esiste tutto è permesso”. Analogamente, se esiste uno Stato al cui interno un Top Manager di Atlantia (capogruppo di Autostrade per l’Italia e degli Aeroporti di Roma) può scegliere un incentivo all’esodo da tredici milioni di euro (a occhio e croce, un trecentomila per ognuno dei morti sul Ponte Morandi), bene, se è considerato lecito tutto ciò, è palese che anche in questo nostro allegro Bengodi tutto sia permesso, dalla latitanza a vita al prolungamento infinito dei processi a carico dei potenti, dalle mille morti sul lavoro allo stupro di una novantenne.

Quel furfante del terzo Matteo è dunque altamente probabile che passi alla storia come l’orgoglioso rappresentante di quel giulivo mondo alla rovescia che è il nostro angolo di mondo.

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