MESSINA. Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Carmen Currò, Presidente emerita “Cedav onlus” in merito al dramma del femminicidio: una riflessione articolata che trae spunto dall’omicidio di Maria Carmela Isgrò, uccisa qualche giorno fa dal marito a Barcellona Pozzo di Gotto.

 

 

Di seguito il contributo integrale:

“Molte delle donne che ogni tre giorni vengono uccise in Italia dai loro ex mariti o compagni avevano denunciato maltrattamenti, episodi di stalking ed altri reati collegati, ed alcune avevano già concluso una separazione legale o era ancora in corso. Solo da gennaio a luglio 2008, in Italia 44 vittime, rilevando un aumento del 30% rispetto allo stesso periodo del 2017. Il dato è per difetto. Ad uccidere sono stati nella maggior parte dei casi i mariti, i compagni o gli ex. I numeri sul femminicidio ogni anno variano di poco palesando una strage che non si riesce a placare, ad arrestare. Quest’anno ha avuto il triste primato la Lombardia con 11 donne assassinate, seguita da Piemonte con 5, la Campania con 6, il Lazio con 4, la Toscana con 3 e poi tutte le altre regioni con 1 o 2 femminicidi. In molti casi, numerosi bambini e ragazzi sono rimasti senza genitori, orfani di femminicidio. Tutte le donne uccise sono state vittime di uomini che non accettavano il loro percorso di autonomia, che non si rassegnavano ad una separazione, il più delle volte, resasi indispensabile per interrompere la spirale della violenza domestica in atto.

I figli, testimoni quasi sempre della violenza, sono stati per la donna la molla più grande per assumere la decisione grave e difficile di allontanarsi dal maltrattante. Ed è proprio quello che è accaduto a Maria Carmela, in quel di Barcellona pozzo di Gotto, qualche giorno fa, proprio alle nostre porte. Maria Carmela aveva avuto fiducia nella giustizia, sin dal 2014 si era rivolta alle forze dell’ordine più volte e alla magistratura, ma, ad oggi, non aveva potuto trovare la serenità che le sarebbe toccata, a lei e alla figlia.

Tutte le campagne di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne raccomandano di rivolgersi senza indugio alle forze dell’ordine e di denunciare al più presto, di rivolgersi ai centri antiviolenza, quando ci sono sul territorio, supportando la donna nel percorso di fuoriuscita.

Poiché non è il primo caso in cui, nonostante la donna abbia denunciato, sia stata uccisa, corre l’obbligo di puntualizzare alcune questioni.

 a) Non sempre e con facilità, una donna che denuncia viene creduta dagli inquirenti; spesso le prove sono costituite solo dal racconto della donna, non supportato da elementi esterni. Un reato che si consuma dentro le mura domestiche non ha sovente risalto fuori, a volte non è conosciuto ai parenti o agli amici.

b) L’esperienza racconta che può capitare che l’atteggiamento delle forze dell’ordine, carabinieri e polizia, non sia sempre di ascolto e di accoglienza anche se è vero che, negli ultimi anni, passi avanti ne sono stati fatti rispetto all’approccio esistente sino ad alcuni anni fa. Sono stati realizzati dai governi dell’ultimo decennio investimenti in termini di formazione del personale di polizia sull’approccio ai reati di violenza, soprattutto dopo la legge sullo Stalking del 2009 e la legge 119 del 2013, e ciò ha portato a soluzioni positive molte vicende.

c) È ancora evidente, purtroppo, la scarsa consapevolezza del sistema istituzionale socio-sanitario, attraverso il coinvolgimento pieno dei soggetti che a vario titolo sul territorio lavorano per contrastare e prevenire la violenza sulle donne; troppo spesso, vengono ignorate le Reti formali ed informali di servizi che si sono sperimentate sul territorio da tempo, che conoscono bene il fenomeno e che possono apportare validamente strategie di contrasto efficaci del fenomeno.

d) La convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel giugno 2013, che ha introdotto principi giuridici, di metodologia e di approccio innovativi ed imprescindibili per i governi, ancora non è divenuta punto di riferimento effettivo delle azioni di contrasto.  Ad esempio, l’approccio al tema della violenza legato indissolubilmente a quello della discriminazione di genere non è ancora consapevolezza condivisa tanto da annacquare spesso la stessa nelle altre violenze, indebolendo in tal modo la matrice di potere esercitato da un uomo su una donna. Infatti, nella Convenzione di Istanbul, la violenza contro le donne è definita come “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. È evidente che questo approccio punti più alla prevenzione, alla tutela, all’educazione, alla politica per far fronte ad un problema “storico” che alla repressione, pur necessaria, che viene sempre dopo. Un articolo della Convenzione sottolinea come sia necessario che l’intera società si faccia carico del problema, promuovendo tutti quei cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, che elimino “pregiudizi, costumi, tradizioni basati sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”.

e) L’approccio sulla violenza, che ancora vige per la maggior parte dei casi, nelle pur numerose iniziative che vengono proposte quotidianamente, tanto che si è anche parlato di “argomento di moda”, è o propagandistico o demagogico -strumentale a fini politici, avulso dal sistema delle azioni che in Italia, da anni, vengono poste in essere dai Centri donna antiviolenza, fra tutti i centri Dire, primi ad essersene occupati da oltre un trentennio. Ancora non è stato reso effettivo il fatto che siano necessarie persone competenti e professionali a trattare il tema e che servono politiche che affrontino la prevenzione con risposte adeguate alle donne vittime di violenza; la formazione delle operatrici e degli operatori, spesso, è demandata a soggetti non portatori di una cultura appropriata, neutra, pur validi in altri ambiti, non adatti a far si che si crei una nuova cultura rispettosa delle differenze. In tale ambito è essenziale il riconoscimento del sapere, sedimentato negli anni, e del ruolo delle realtà delle donne e della società civile impegnata su questo grande problema politico, come, per l’appunto, prevede e richiede la Convenzione di Istanbul.

f) Spesso, quello che prevale è un taglio sanitario- punitivo della vicenda, non sufficiente a far arretrare il fenomeno, quando è staccato e non collegato all’approccio culturale preventivo del fenomeno.

g) Infine, la Corte di Strasburgo, nel 2017, ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nonché del divieto di discriminazione in quanto le autorità italiane non sono intervenute per proteggere una donna e i suoi figli vittime di violenza domestica perpetrata da parte del marito, avallando di fatto tali condotte violente (in particolare, viene contestato allo Stato italiano la mancata adozione degli obblighi positivi scaturenti dagli art. 2 e 3 della Convenzione. La vicenda sottoposta al vaglio del giudice europeo riguardava una donna che, dopo l’ennesima violenza subita dal marito, presentava denuncia per maltrattamenti contro familiari, lesioni e minacce, chiedendo altresì alle autorità di adottare misure urgenti di protezione. Tali misure non vengono disposte e l’uomo, dopo aver ricevuto l’atto di citazione per una udienza, uccide un figlio e tenta di uccidere la donna. Solo nel 2015, a tragedia avvenuta, ’uomo viene condannato all’ergastolo per omicidio, tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia e porto d’armi vietate. Orbene, per il giudice europeo, le autorità nazionali, non agendo rapidamente dopo la denuncia, hanno privato la stessa di ogni efficacia, creando un contesto d’impunità favorevole alla ripetizione da parte del marito di atti di violenza nei confronti della moglie e della sua famiglia, culminati poi con l’omicidio del figlio e il tentato omicidio della ricorrente e l’art. 2 Cedu risulta violato. Analogamente, con riguardo all’art. 3 Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo rileva come le violenze inflitte all’interessata, le quali si sono tradotte in lesioni corporali e in pressioni psicologiche, siano sufficientemente gravi da essere qualificate come maltrattamenti.

Riferito quanto sopra, possiamo concludere che nel caso della povera Maria Carmela sia stato fatto tutto quello che ormai in casi simili è d’obbligo fare o sono riscontrabili inadempienze, scaturite dalla sottovalutazione del problema?

 

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