MESSINA. Fabrizio (il nome è di fantasia) lavora in un locale di Messina. Otto o nove ore al giorno, sei giorni su sette, per un compenso di 25 euro al giorno, tutto in nero, per un totale di 600 euro mensili. Ovvero 16 euro in più di quanto percepisce in media, in Italia, un beneficiario del reddito di cittadinanza (584 euro). Daniele (anche qui il nome è inventato) lavora come cameriere in un’attività sulla riviera, dalle 4 del pomeriggio all’orario di chiusura, per un totale di 10-12 ore quotidiane. Lo stipendio? Trenta euro al dì, sette giorni su sette.

Le loro sono solo alcune delle segnalazioni che abbiamo raccolto fra i lavoratori stagionali nel mondo della ristorazione a Messina: un settore di cui molto si è discusso in questi mesi, soprattutto in merito alle “ingerenze” del Reddito di Cittadinanza e alla difficoltà degli imprenditori di trovare personale, a fronte di una moltitudine di presunti “fannulloni”.

Il dibattito, molto acceso, si è acuito in questi giorni in seguito alla pubblicazione di un post (poi rimosso) da parte di un locale di Taormina, il “BamBar”, molto noto per le granite e per i suoi clienti vip (da Gianna Nannini a Ronaldinho, solo per citare i più recenti), che attribuisce la mancanza di personale al sussidio erogato dallo Stato. Una “supposizione”, non avvalorata a quanto pare da riscontri oggettivi, che il gestore ha espresso dopo l’esito infruttuoso di un annuncio pubblicato il 18 di agosto (e di altri precedenti, scrive).

 

 

La “segnalazione” del gestore è stata subito ripresa da agenzie di stampa e giornali (che hanno trasformato una considerazione in un dato di fatto), scatenando una ridda di reazioni. Fra i tanti a intervenire anche la deputata del M5s Angela Raffa, che ha posto degli interrogativi sulle condizioni di lavoro offerte, con specifico riferimento alle specificità di Taormina (dal costo degli affitti a quello dei parcheggi).

Ma quanto ha influito in realtà il sussidio statale sul settore della ristorazione? «Pochissimo», secondo Benny Bonaffini, vicepresidente nazionale e presidente regionale della FIEPET Confesercenti, che fa il punto sullo stato del comparto in città, fortemente condizionato più che altro dal Covid e dalle restrizioni imposte per contenere la diffusione della pandemia.

«È vero che nel settore ci sono molti meno lavoratori, ma per ragioni che non dipendono dal reddito di cittadinanza, se non in casi residuali. Normalmente la stagione estiva, per quanto riguarda le attività di ristorazione, inizia già dopo Pasqua e dura anche fino a primi giorni di Ottobre. Così non è stato negli ultimi due anni, per via delle chiusure imposte e dalle varie “colorazioni”, che hanno spinto molti lavoratori stagionali del settore a cercare un lavoro già ad aprile in ambiti meno colpiti dal Covid, come nel caso del delivery. È chiaro, quindi, che a giugno-luglio, o addirittura ad agosto, si riscontri meno personale fra i lavoratori del comparto, a fronte di una moltitudine di soggetti che si è vista costretta a cercare già prima un’occupazione. Il reddito di cittadinanza, ricordo, c’era già prima della pandemia e personalmente non conosco nessuno che preferisca ricevere il sussidio al posto di un’occupazione, soprattutto fra persone che lavorano o lavoravano nel comparto. Certo, qualche “fannullone” ci sarà, ma erano fannulloni già da prima»

A quanto ammonta lo stipendio per camerieri, cuochi, addetti alla sala e professionisti vari, lo stabilisce il Contratto nazionale collettivo del lavoro, nella sezione che disciplina le retribuzioni per pubblici esercizi, ristorazione collettiva e commerciale e turismo. In base ai vari livelli, dal QA al 7, la paga, per 40 ore settimanali, varia dai 2300 euro ai 1300 euro lordi al mese. Una cifra ben più sostanziosa del reddito (il 60% dei nuclei familiari percepisce un importo inferiore a 600 euro, l’1% un importo superiore a 1.200 euro, in base a dati aggiornati ad aprile 2021).

Questo è quanto stabilisce la Legge, ma non sempre la realtà corrisponde alla teoria. «In linea di massima – spiega Bonaffini – possiamo distinguere fra due tipi di aziende: quelle ligie alle norme, che battono tutti gli scontrini e pagano regolarmente i lavoratori, e quelle che di scontrini ne battono solo alcuni e pagano parte dei compensi dei dipendenti in nero. Una situazione che ha avuto le sue conseguenze durante il lockdown e le chiusure successive, dato che i ristori dal parte dello Stato sono calibrati, ovviamente, in base ai ricavi dichiarati. E ciò ha avuto ovvie ripercussioni anche in ambito lavorativo. Allo stesso modo ci sono realtà che si attengono a quanto previsto dai contratti ed altre, spesso piccole “aziende” a conduzione familiare, dove gli accordi non corrispondono alle condizioni di lavoro, ma per quanto mi risulta sono una piccola parte».

Il nodo, in molti casi, è quello degli orari, con dipendenti con contratti part-time che si trovano costretti dalle circostanze a lavorare ben oltre i tempi concordati. C’è poi la questione del lavoro in nero, un fenomeno sempre attuale, come dimostrano gli esiti di varie operazioni delle Forze dell’Ordine: «Il dramma nel dramma – conclude Bonaffini – è che le aziende che non rispettano le regole non arrecano danni solo ai lavoratori, ma mettono in difficoltà anche le aziende sane, offrendo spesso dei prezzi e condizioni più concorrenziali, dato che non pagano le tasse».

A fornire i numeri sulla diffusione del lavoro nero è l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che ha diffuso gli inquietanti dati relativi alla giornata di Ferragosto su tutto il territorio nazionale: su oltre 200 aziende controllate più del 70% è risultato irregolare e circa il 30% è stato chiuso con provvedimento di sospensione dell’attività; tra le imprese ispezionate 7 su 10 hanno visto la presenza di lavoratori in nero, con violazioni in materia di busta paga e di tracciabilità dei pagamenti e si sono evidenziate irregolarità in merito alla sicurezza del lavoro, a forme spurie di cooperative, agli orari di lavoro, all’illecita somministrazione di manodopera e ai trattamenti contrattuali applicati ai lavoratori.

«Il quadro che si sta delineando è di estrema gravità», commenta in una nota la Filcams, la categoria della Cgil del Turismo, che fa riferimento anche ai controlli effettuati dalle forze dell’ordine nel corso del mese di agosto. «Non può evidentemente essere questo il nuovo turismo post pandemia – spiega il segretario nazionale Fabrizio Russo – né tantomeno il modello di riferimento per la ripresa; la ricostruzione fornita dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, seppure ancora parziale, ci consegna una situazione di ulteriore degenerazione in termini di condizioni di lavoro per gli occupati del settore anche rispetto alla già difficile fase precedente all’emergenza. Non si esce dalla crisi violando la legge e non rispettando i Contratti Nazionali, né rendendo insostenibile l’occupazione per le centinaia di migliaia di lavoratori della filiera, soprattutto donne e giovani, avendo poi l’ardire di polemizzare, strumentalmente, sulla presunta indisponibilità degli stessi e sul reddito di cittadinanza».

 

 

 

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