MESSINA. Un padre straziato dal dolore, una dedica commovente e un bassorilievo che potrebbe rappresentare una delle prime testimonianze dell’opera di Giovanni Angelo Montorsoli a Messina: sono questi i tre elementi che più di tutti caratterizzano il cinquecentesco Sarcofago della famiglia Porzio, restituito al Duomo nel luglio scorso e presentato il 20 ottobre dalla Soprintendenza per i Beni culturali nell’ambito delle “Domeniche in Cattedrale”, fortemente volute da padre Roberto Romeo.
Una storia circolare, quella del monumento, che inizia dopo il 1548, data della morte del dodicenne Federico Porzio, prosegue ininterrottamente all’interno dell’abside di San Placido fino al 1908, quando il Sarcofago viene spostato nella cripta in seguito al crollo delle mura, e che subisce un altro scossone nel 2001, con il trasferimento al Seminario Arcivescovile per permettere i lavori di impermeabilizzazione degli ambienti. Passano i decenni e, dopo un sopralluogo, la decisione della Soprintendenza di inserirlo in un programma di restauri finanziato dalla Regione e, in accordo con la Curia, di riportarlo in Duomo.
A raccontare tutto sull’opera, trascurata dalla storiografia e dalla letteratura specialistica, sono state Stefania Lanuzza, funzionario dell’Istituto di tutela guidato da Mirella Vinci, e la restauratrice Giovanna Comes. La storica dell’arte si è soffermata sulle caratteristiche del manufatto, decorato su due fronti, uno piano (il principale) e uno bombato (sul lato opposto). Sul primo, c’è un fanciullo alato semisdraiato, che poggia il gomito sullo stemma della famiglia ed è identificabile come un erote (o amorino). Ai lati del putto, sono incise due iscrizioni: a sinistra, l’epigrafe del 1548, che riporta il nome del defunto dodicenne Federico Porzio; a destra, invece, un distico attribuito a Francesco Maurolico, riferito alla morte prematura del defunto. Sul secondo fronte, invece, campeggia al centro un altorilievo con due putti che reggono sempre lo stesso stemma. Come rilevato da Stefania Lanuzza, la differenza stilistica tra i due bassorilievi è evidente: raffinato, michelangiolesco, il primo; più modesto e “seriale”, il secondo (che appare più tardo).
Che Tommaso Porzio (o Porco, com’era in origine il cognome) fosse devastato dalla morte del figlio, avvenuta il 31 marzo del 1548, si evince dal conto preciso di quanto avesse vissuto: “Federico Porzio, fanciullo di indole distinta e singolare e di straordinaria educazione, figlio primogenito carissimo, il padre mestissimo Tomaso Porzio, nobile messinese, pose [questo] sepolcro. Visse dodici anni, tre mesi e quindici giorni”.
Attribuito a Francesco Maurolico dal nipote omonimo, il distico invece recita: Ingenio decepta meo dum computat annos / Impia me Lachesis credidit esse senem (“L’empia Lachesi – una delle Moire – , tratta in inganno dal mio ingegno mentre calcolava i [miei] anni, mi credette vecchio”).
La storica dell’arte, non avvezza all’attribuzione a tutti i costi, ha più volte sottolineato come il bassorilievo sul fronte piano del Sarcofago sia di ambito montorsoliano, portando come raffronto il fiume Nilo della Fontana d’Orione in piazza Duomo (la cui posa classica e il modellato, ad eccezione delle braccia, ricordano quelli del putto). Prudentemente, però, non esclude a priori la possibilità che la famiglia, una delle più potenti di Messina e con contatti in tutta Italia, si fosse potuta rivolgere ad altri scultori coevi. Oltre alla cifra stilistica, però, il bassorilievo appare frutto di quel milieau culturale che vide protagonisti in città Montorsoli e Maurolico attraverso le fontane di Orione e del Nettuno. Un milieau culturale che, nell’opera, si riflette nell’accoppiare il distico non a un putto qualsiasi, ma a un erote (probabilmente Photos, emblema degli amori spezzati) “travestito” da angioletto, ma “tradito” dalle ali, che richiamano la cultura classica.