La morte di Lorenzo Parelli, lo studente all’ultimo giorno di PCTO, alias di alternanza scuola-lavoro, non è né una coincidenza né la solita morte bianca sul lavoro. E’, invece, l’apoteosi di un percorso che era nato ad avvicinare gli studenti al mondo del lavoro ma che spesso si è rilevato mero sfruttamento e modo per rischiare la pelle. Lorenzo Parelli non è il solo: tra il 2016 e il 2021 sono quasi una decina gli studenti che sono rimasti feriti, anche gravemente durante questi stage, che più che avvicinarsi al mondo del lavoro si sono avvicinati alle ingiustizie di questo: nessuna retribuzione, rari rimborsi spesa, orari poco flessibili e richiami disciplinari se non si rispettano le decisioni del datore. Inoltre, i progetti PCTO sono anche deterrenti per le imprese ad assumere personale in maniera stabile e creare profitto mediante l’assunzione di studenti non retribuiti. Di casi come quello di Lorenzo Parelli, fortunatamente, non ne sono ancora accaduti a Messina, ma sfruttamenti sistematici, di cui si nutre il mondo imprenditoriale mediante l’alternanza scuola-lavoro, ne esistono. La paura di raccontare, di denunciare pubblicamente è molto alta tra gli studenti per vari motivi: ripercussioni sulla valutazione scolastica, e giudizi negativi da parte di professori e dirigenti scolastici. Ma, ahimè, dinanzi a questi orrori bisogna reagire anche mediante la testimonianza di chi ha conosciuto le ingiustizie sulla propria pelle e ha avuto la possibilità di reagire.

Prima di raccontare ciò che ho vissuto, vorrei soffermarmi qualche minuto su alcune considerazioni: 1) l’alternanza scuola-lavoro dovrebbe essere un modo per avvicinare gli studenti al tessuto lavorativo anche per scegliere cosa fare dopo la scuola; 2) gli studenti in stage come questi vanno retribuiti in qualsiasi caso (non lo dico io ma è stato più volte sottolineato dal Parlamento europeo), la mancata retribuzione di questi periodi fa aumentare le diseguaglianze e la disoccupazione giovanile; 3) l’alternanza scuola-lavoro deve essere integrata in un percorso che coinvolga attivamente lo studente in campi che possano interessare per crescere individualmente; 4) questo intervento vuole raccontare come il sistema scolastico italiano sia complice di cattive esperienze, infatti non voglio attaccare alcuna scuola.

Iniziamo: sono passati sei anni dalla prima volta che ho sentito la parola “alternanza scuola-lavoro”. Una parola vuota, complessa, che all’età di 16 anni mi destava soltanto curiosità e un senso di critica dovuto alla partecipazione alla vita politica del mondo della scuola. Tra il 2018 e il 2019 l’arrivo del governo giallo-verde segna la fine dell’utilizzo “alternanza scuola-lavoro”: diventa “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” (PCTO). Ma dietro questa modifica, che faceva auspicare una riforma dell’intero sistema, si cela soltanto una volontà politica di eliminare i termini “scuola-lavoro”, che uniti con il trattino creavano un clima “infame” nella mente di noi studenti, i quali ci vedevamo costretti a lavorare in fabbrica o a sbrigare faccende che non ci interessavano direttamente. Che poi, io, da studente del liceo classico, durante l’adolescenza non sono mai entrato in una fabbrica. Ma i miei coetanei, probabilmente in città maggiormente industriali, in fabbrica ci sono andati. Così, all’esordio della Buona Scuola e l’entrata in vigore anche dell’ASL, nella mentalità liceale, tutto ciò era sinonimo di “facciamo i progetti scolastici facendoli passare per alternanza scuola-lavoro riempiendo quelle 200 ore obbligatorie”. Il primo anno, nel mio istituto, si decise di dare avvio a progetti di orientamento con l’Università che prevedevano il frequentare i laboratori di biologia e anatomia o il riscaldare la sedia durante lunghe e spesso noiosissime conferenze, e altre attività con l’ordine forense, con una casa editrice o un giornale. Ma ciò che avevo in mente era totalmente differente dalla realtà. Così, data la mia passione per l’editoria e la fotografia ho iniziato a collaborare con una casa editrice e un giornale locale. Da quei percorsi ho compreso che se vuoi diventare un giornalista, o ancora peggio fotogiornalista, farai la fame e che gli editor sono brutte bestie. Così si concludeva il mio terzo anno di superiori con circa 120 ore di ASL completata e un bagaglio di esperienza discreto per un sedicenne. Mentre mi formavo in percorsi di ASL più o meno bene, i miei coetanei che frequentavano altre scuole del centro città erano finiti a sbigliettare presso diversi cinema della città o in teatri. Certamente percorsi che non corrispondono alle aspettative di un liceo scientifico o linguistico. Altri ancora avevano orari sino a tarda notte in fiere enogastronomiche, spesso senza essere rimborsati per le spese. Un gruppo significativo, sempre di un’altra scuola, si era impegnato in un progetto per raccogliere cozze nel lago di Ganzirri. Anche in questo caso, si potrebbe dire che non si sia trattato di un successo per un liceo scientifico.

L’anno successivo (anno scolastico 2017/2018) il sistema dell’alternanza era cambiato: più progetti, più possibilità, ma meno voglia di dedicare ore della propria esistenza che sarebbero state sottratte alle amicizie, ai primi amori adolescenziali, allo studio e alla politica. Politica, termine più difficile di alternanza scuola-lavoro, ma che era semplice da comprendere. Il 2017 è stato l’anno in cui mi sono dedicato di più alla politica studentesca, al collettivo d’istituto (in risposta a chi dice che gli studenti non devono interessarsi di politica). Nel dicembre 2017 una compagna di collettivo ed io andavamo a Roma per partecipare agli stati generali dell’alternanza, assemblea con un centinaio di studenti provenienti da tutta Italia. L’esperienza di quella conferenza è stata fondamentale per la mia crescita: ho conosciuto studenti che, nonostante lavorassero in grandi fabbriche, non venivano sfruttati perché ciò che producevano non creava profitto; ho conosciuto chi, non avendo i rimborsi per i pasti e per gli autobus, non si poteva permettere economicamente l’alternanza scuola lavoro; e c’era anche chi, invece, aveva richiesto una carta etica per i datori di lavoro. Così, tornati a Messina, ci siamo ingegnati con il rappresentante dei genitori e un tutor scolastico a stilare e far emanare uno statuto degli studenti in alternanza almeno per il mio liceo. A maggio 2018, il consiglio d’istituto approva lo statuto che prevedeva un rimborso spesa e dei percorsi idonei alla propensione degli studenti. Ma quell’approvazione di quei diritti è stata una mera illusione. Le ingiustizie continuavano (e continuano).

Nel marzo 2018 ho partecipato ad un bando per un progetto europeo per imparare l’inglese con uno stage di alternanza scuola-lavoro a Malta. Rientro tra i quindici vincitori. Partenza a metà maggio fino ai primi di giugno. Tre settimane pagate dall’Europa, tutto incluso, 80 ore di ASL per imparare l’inglese a livello B2. Il giusto per completare quel maledetto monte ore. A maggio finisco tutte le interrogazioni, preparo il curriculum, che era necessario per essere inseriti in un’azienda secondo i nostri interessi, e a metà mese si parte. Campo lavorativo scelto: fotografia, editoria e giornalismo. Mi ricordo perfettamente che era un finesettimana quando sono arrivato a Malta. Lunedì siamo andati tutti insieme alla scuola di lingua che ci doveva assegnare il luogo di lavoro. Una ragazza in un’agenzia di viaggi, tre in un laboratorio affine al proprio percorso, e poi un gruppo di sei o più persone, tra cui io, in acquapark. Non capivamo il perché. Le nostre facce di incertezza si rivolgevano direttamente alle due professoresse che non conoscevamo e che avevano assunto una posizione tra la certezza da “è un pon… quindi è l’Europa che ce lo chiede” e ampie riserve sul caso. Il giorno stesso, io e i miei, ormai, colleghi abbiamo preso l’autobus per dirigerci a mezz’ora di strada dall’hotel in cui stavamo. Entrati all’acquapark, tutti masticavano l’italiano con noi. La manager parlava un inglese, con un forte accento italiano, interponendo tra le frasi “mela”, che in maltese vuol dire “quindi”. Il posto aveva riaperto da due giorni. Turisti non ce n’erano. Solo lavoratori che avevano trovato uno stipendio da 600€ al mese per circa 10 ore e più al giorno. Così, ci hanno diviso per compiti: i tre ragazzi, perché masculi (come si direbbe nella nostra città), a fare i bagnini sulle torri da dove scendono gli scivoli in piscina, le ragazze tra accoglienza e ristorante.

Così, il primo curriculum della mia vita, era stato stracciato via da un qualcuno, che pagato dai soldi pubblici dell’Europa, se ne fregava altamente del mio futuro e di cosa avessi scritto su quel foglio. Un bagnino perché sono maschio. Il primo giorno ho passato 5 ore su quella torre alta circa 15 metri. Cinque ore al vento che tira a Malta. Cinque ore ad osservare i delfini in una vasca dello zoo acquatico vicino, un gatto morto sul prato e a parlare con un ragazzo italiano che raccontava delle sue avventure romantiche e di illeciti in Lombardia prima di partire alla volta dell’isola. Finito il turno mi sono ritrovato con le “colleghe”. Ustionate per il primo sole di maggio. La vera propria incazzatura si sentiva appena aprivamo bocca, ed io, che ero quello più politicizzato, mi ero messo in prima linea: subito chiamo ad un sindacato studentesco. Nell’arco di due ore la vertenza è pronta. La chiamata successiva era, giustamente, con mia madre, che da insegnante mi ha suggerito di parlare con la scuola e le accompagnatrici. La riunione serale per fare il resoconto della giornata segnava una disfatta del progetto. Annuncio la mia intenzione di presentare una vertenza. Le accompagnatrici, ovvero delle professoresse, restano sbalordite. Sapevano che presentare un tale atto significava, oltre che minare la credibilità della scuola, anche bloccare il pon e i possibili futuri finanziamenti europei. Cercano con tono minaccioso di farmi passare per una minoranza, ma le colleghe si uniscono. Le accompagnatrici chiamano la dirigente che promette di risolvere entro il giorno dopo e, come mi confessò la preside, giunta dieci giorni dopo a Malta: «L’obiettivo era quello di far scendere Moraci da quella torre».

La sera tra il primo giorno e il secondo giorno di lavoro la passiamo a misurare la febbre a una ragazza di 17 anni che per colpa dell’esposizione al sole, nella sua mansione di consegnare braccialetti ai clienti del parco, era finita per stare male. Nulla di grave fisicamente: niente ospedale o guardia medica, ma solo mal di testa e nausea. Un’insolazione. Così anche qualche altro collega il giorno dopo. Ma lo sfruttamento e la situazione in cui eravamo ampliavano i sospetti su quel percorso di ASL. Secondo chi aveva preparato quel progetto dovevamo lavorare 8 ore al giorno con 15 minuti di pausa e parlare inglese. Non male rispetto gli standard di quel Paese, ma forse eccessivi per degli studenti di 17 anni. Finito il turno di lavoro, l’odio e l’ira tra le mie colleghe, costrette a stare costantemente sotto il sole con una sola pausa, si poteva toccare con mano. Siamo tornati in hotel per il resoconto e la soluzione promessa dalla preside e trovata dalla scuola di lingua era la seguente: «Andrete a lavorare come receptionist in hotel». Niente male per uno che doveva dedicarsi a fare uno stage in inglese nell’ambito dei propri interessi ma alla fine era finito a fare il bagnino in un posto pieno di italiani.

L’esperienza in toto mi è servita: riconoscere la dignità di tutti i lavori e lottare per i propri diritti. L’alternanza scuola-lavoro dovrebbe essere rimodellata come una possibilità che si offre allo studente. Un momento di stage retribuito che si prospetta come primo contatto con il mondo del lavoro. La mancata retribuzione di questi momenti conduce all’incremento delle diseguaglianze tra gli studenti: non tutti possono permettersi di dedicare intere ore a queste attività. Molti studenti, tra i quattordici e i vent’anni, si trovano a lavorare per sostenere gli studi e per mantenere un minimo reddito in famiglia. Molti miei coetanei, a diciassette anni, hanno deciso di impegnarsi come fattorini o come riders. Obbligare questa fetta di popolazione scolastica a lavorare gratis per introdursi nel mondo del lavoro è una forma di ipocrisia e di sfruttamento. Inoltre, la scuola andrebbe riformata non per avvicinarsi al mondo del lavoro ma per avvicinarla al mondo della conoscenza. Negli ultimi anni, i tagli continui all’istruzione e la situazione in cui versa il corpo docente ha fatto sì che si inseguissero più le nozioni all’interno dei programmi ministeriali, lasciando indietro gli studenti che non ce la fanno a seguire il ritmo didattico. Come dichiaravano gli studenti della scuola di Barbiana, di Don Milani: «E’ l’aspetto più sconcertante della vostra scuola: vive fine a sé stessa. […] Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro. Dietro quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale.» Ecco. La scuola deve tornare ad essere luogo della bellezza per la conoscenza e per l’umanità. Non un laboratorio di concorrenza tra studenti, ansie da prestazione e ansia di morire quando si va a scuola, come è successo a Lorenzo Parelli.

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