Non vedo Sanremo da oltre cinquant’anni. Anzi, se vado indietro con la memoria mi par di ricordare i miei ultimi due festival coincidenti con il Lucio Dalla di Paff Bum (con gli adorati Yardbirds) e col successivo Luigi Tenco suicida per dispetto. Ho sempre pensato che dopo quel 1967 Sanremo avrebbe dovuto chiudere i battenti, la musica leggera italiana ne avrebbe ricavato grande giovamento.

Negli anni successivi, delle canzoni di Sanremo mi accadeva di sentire senza essermelo cercato qualcosa per radio, e ad eccezione dei cantanti che già amavo da prima (Endrigo, Dalla, Battisti, New Trolls) quanto ascoltavo mi confermava nell’idea che il festival fosse come un corrispondente musicale dell’orrido regime democristiano la cui coltre ci avvolgeva e nutriva come placenta. Una kermesse senza senso che non fosse quello di far prosperare gli affari delle case discografiche pompando oltremisura con anabolizzanti mediatici cantanti mediocri, in tal modo elevati a divi, i testi delle cui canzoni contribuivano in maniera non marginale all’impoverimento culturale e civile del Paese.

Si trattava in fondo, anche per me, di uno stato d’animo e di una prospettiva di giudizio che avrei poi trovato molto più lucidamente espressi nel Pasolini degli Scritti Corsari. E non era, mi sento di affermarlo anche oggi a distanza di anni, un atteggiamento retrivo o moralistico, trattandosi piuttosto di un dolente riflettere sulla mutazione antropologica cui l’Italia era andata incontro e su come tale mutazione avesse, letteralmente, inaridito i cuori un tempo pulsanti del Paese.

Bene, a distanza di tutti i decenni intercorsi da allora tengo ancora fede a quel mio antico proponimento, ancor più consolidatosi negli anni con la struggente presa di coscienza di una radicale fininvestizzazione del novantacinque per cento dei media nazionali. La nuova (si fa per dire) ideologia dello spettacolo teorizza che, all’interno beninteso di un quadro caratterizzato da conformismo di fondo (l’obbedienza ottusa e disinvolta al mainstream politico-culturale dominante), si debbano proporre esempi sempre più connotati da trasgressioni tanto sgradevoli quanto fasulle. L’ultimo banale esempio sanremese di Achille Lauro, sul quale tante anime belle si sono sentite minacciate nelle loro radici cristiane invocando levate di scudi e raccolte di firme al fine di esorcizzarne gli effetti demoniaci, mostrano in realtà come una volgare e soffocante coltre conformistica avvolga ormai attori e spettatori, moralisti e trasgressori. L’attuale società dello spettacolo, che si declina totalmente sul versante dell’apparire e non dell’essere (direbbe Erich Fromm), sempre più modula i propri percorsi secondo una logica carnevalesca, perché è proprio nelle ritualità del Carnevale che trapela la reale natura degli elementi trasgressivi quali segni non eccentrici rispetto alla cultura dominante o, per meglio dire, fenomeni la cui eccentricità non si spinge fino al punto da mettere in discussione i presupposti su cui quella cultura si fonda. L’organizzazione degli spettacoli di massa, con personaggi allineati e coperti come Amadeus o Fiorello, non sono dunque altro che espedienti calcolati per incanalare entro un alveo di disordine controllato gli eccessi, le effervescenze, le spinte eversive presenti in ogni società (nella nostra attuale tristemente reali e motivate, ma non certo collocate nelle pattuglie moralistiche) che potrebbero mettere in crisi gli assetti consolidati. Alla rivoluzione si sostituisce un gioco di simulazione che garantisce il rispetto delle regole nel momento in cui, ammiccando, se ne consente la momentanea e fittizia infrazione. A tale gioco non si sottraggono evidentemente tutti coloro che si fanno guardare vista, nel buio delle loro stanze, dagli schermi televisivi che offrono lo svago sanremese.

Sotto questo profilo macchiette come Achille Lauro e (ne prendo due a caso) Mario Adinolfi o Simone Pillon non sono altro che le facce di una stessa medaglia. Quella medaglia che, appunto, Pasolini aveva in sommo orrore, rammaricandosi che negli italiani il fascismo e il mercato avessero spodestato il Vangelo e la cultura contadina.

A parte le buone, sia pur condivisibili, parole di qualche Vescovo, che esercita il mestiere proprio della sua carica, credo che il commento migliore sulle blasfemie sanremesi l’abbia offerto l’Osservatore Romano, la cui pacata ironia ha posto fine a qualunque scandalo, a qualunque provocazione.

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