MESSINA. Messina è la grande città italiana col più alto tasso di abitazioni sfitte o non abitate: il 26%, praticamente una casa su quattro, è chiusa senza che nessuno ci viva dentro. E’ il risultato di un’analisi effettuata da Youtrend su dati Istat del 2021 tra i venti comuni più popolosi. Un numero impressionante, non solo in assoluto, ma soprattutto guardando le serie storiche: al censimento del 2011, infatti, a Messina risultavano disabitate poco meno del 16% delle abitazioni (18.429 case disabitate, che corrispondono al 15,82% degli immobili cittadini), e la città dello Stretto era quinta in graduatoria, dietro Ravenna, Reggio Calabria, Catania e Modena. In pratica, Messina ha perso in dieci anni un punto percentuale all’anno di case abitate (catastalmente “vuote e occupate da persone non residenti”), ha perso un paio di decine di migliaia di abitanti, ma ha guadagnato abitazioni: erano circa 116mila, e fra il 2012 e il 2017 sono stati rilasciati titoli autorizzativi per 307.500 metri cubi.
Oggi invece sono 133.133 le abitazioni censite dall’Istat, e quelle effettivamente occupate sono 98.046, mentre quelle disabitate sono ben 35.087: quasi 76mila quelle di proprietà, poco più di 15mila quelle in affitto. Il fatto che in città ci siano oltre 133mila abitazioni, ma “solo” 219mila abitanti significa che, in media, c’è una casa per meno di due persone: oppure, volendola vedere in altra maniera, possiede una casa più di un messinese su due, bambini compresi. Un valore enorme, totalmente spropositato, che testimonia però come il mattone in città sia sempre considerato l’asset di gran lunga più importante.
A cosa è dovuto il dato così altro? Ad una serie di fattori. Il primo è ambientale: in Sicilia, di case non abitate ce ne sono quasi un milione e mezzo, sulle complessive 3 milioni e 181mila, il 33%, una casa su tre. Un altro motivo è la forte emigrazione: Messina perde una media di duemila abitanti all’anno. Poi c’è un terzo motivo, meno legato al contesto e più peculiare: a Messina si è costruito molto, troppo, e soprattutto senza che ve ne fosse una vera necessità.
Il colpo di grazia è arrivato con la variante al piano regolatore generale, votata nel 1998 ma entrata in vigore nel 2002, che ha dato il via alla “deregulation”, all’assalto alle colline, a lottizzazioni spropositate e costruzioni a carattere speculativo. Si costruiva non perchè ce ne fosse realmente bisogno, ma per l’”asset” stesso del mattone, a tutt’oggi la forma di investimento preferita dagli italiani. Il tutto in un periodo di tempo abbastanza lungo in cui alla sovrabbondanza di offerta non corrispondeva un calo del prezzo, anzi. Il mercato, drogato, è imploso catastroficamente, perdendo oltre il 30% del valore in dieci anni. E lasciando tapparelle e serrande chiuse (al netto del “nero” degli affitti, comunque molto alto in città). Come è stato possibile?
Perchè, a partire dagli anni ’50, in città l’originale piano regolatore post terremoto elaborato da Luigi Borzì è stato sostituito da varianti su varianti che hanno puntato sulla volontà di costruire esclusivamente abitazioni, senza una conseguente urbanizzazione secondaria: abitazioni e palazzi in ogni dove a scapito di spazi pubblici, parchi e giardini, ma anche di strade e viabilità alternativa. Il colpo di grazia è arrivato con i piani successivi: il Tekne del 1976, e la variante Urbani del 1990, mai entrata in vigore, che prevedeva per Messina un fabbisogno abitativo parametrato su oltre trecentomila abitanti. Oggi Messina ne ha poco più di 217mila.