MESSINA. “Prima la pioggia per tutta la sera, poi, di notte, si è sentito un boato”. A Giampilieri, la fine del mondo è arrivata con fragore, di notte, accompagnata da un temporale di quelli che per fortuna ne succede uno ogni trentʼanni. La fine del mondo, a Giampilieri, è arrivata con una montagna che si sbriciola, con milioni di tonnellate di fango che disintegrano case e vite umane, e con le urla silenziose di chi i propri cari li piange sotto cinque metri di melma. Una tragedia annunciata? No. Una tragedia denunciata. Che le zone colpite dalla catastrofe fossero a rischio lo sapevano tutti. Proprio tutti.

Eʼ da poco scoccata la mezzanotte quando il fango restituisce la prima vittima, un uomo di settantʼanni ritrovato nella sua cantina a Giampilieri. Venti minuti dopo, un km più a valle, arriva la notizia di una seconda morte. E non è nemmeno lʼuna. La marea di detriti blocca il sottopassaggio che dalla statale 114 porta a Giampilieri, poi frana la strada che congiunge il paesello ad Altolia e Molino. Da questo momento, e per oltre ventiquattrʼore, Giampilieri resterà isolata dai collegamenti via terra. I primi a mobilitarsi sono i militari della brigata Aosta, insieme a loro arrivano anche i vigili del fuoco. Si inizia a scavare mentre il maltempo non dà tregua ed il fango inizia a sputare fuori cadaveri su cadaveri.

In mattinata il capo della protezione civile Guido Bertolaso arriva in città per coordinare le operazioni, ma la macchina organizzativa farà acqua da tutte le parti, almeno per il primo giorno. A Giampilieri, tra le rovine di via Vallone, cinque metri di fango si scavano con pala e piccone. La dimensione della tragedia è il viso stravolto dal dolore della madre dei due fratelli Christian e Leo Maugeri, che assiste alle operazioni quasi in trance, dopo aver indirizzato invano i soldati verso quello che resta della sua casa. “Ho sentito mio figlio chiamare aiuto”, ripete come un automa. Il primo esame autoptico confermerà che è vero. Uno dei due fratelli non è morto subito. Poco più in là, un uomo si aggira sulle macerie della sua casa, sventrata quasi fosse stata colpita da una bomba. Eʼ un finanziere, ha salvato un bambino, cerca la madre. E scava con le mani.

Dal fango riemergono pezzi di vite mutilate. Le videocassette, i giocattoli, gli abiti invernali ancora impacchettati nel cellophane. Abiti che nessuno indosserà più. Dalle case sommerse dal fango, beffardo contrappasso, fanno capolino le immagini sacre. Tuttʼintorno, volontari, polizia e carabinieri appaiono smarriti: hanno le occhiaie e la rabbia di chi vorrebbe fare qualcosa, ma non sa cosa. Nè come. Gli unici mezzi al lavoro, a Giampilieri, sono tre ruspe di privati del luogo. In tutti, i mezzi ammassati lungo la statale 114 sono centocinquanta. Da Scaletta, nel frattempo, arrivano notizie altrettanto tragiche. Esonda il torrente, spazza via metà di un palazzo e travolge strade e abitazioni. I morti, anche lì, si conteranno a decine. A Giampilieri, dallʼaltro lato del torrente, cʼè la scuola che diventa punto dʼaccoglienza per gli sfollati. Dal piazzale atterra e decolla senza soluzione di continuità lʼelicottero che porta a valle i feriti, mentre i dispacci parlano di una ventina di morti e almeno il doppio di dispersi che si dispera di trovare vivi.

Messina va a dormire con la morte accanto mentre fuori la pioggia continua a cadere, indifferente. Il mattino successivo, Guido Bertolaso convoca una conferenza stampa in un clima concitato. I media nazionali si accorgono dellʼesistenza di Messina e puntano il dito contro lʼabusivismo, ritenuto responsabile delle morti. Qualcuno fa notare loro che Giampilieri è lì, sotto la montagna, da almeno cinquecento anni, i cittadini di Scaletta Zanclea si scagliano contro chi definisce abusivo il palazzo spazzato via dalla furia delle acque. “Accanto al palazzo non scorreva alcun fiume”, scrivono in una lettera aperta. Si punta lʼindice contro la gestione del territorio: dal costone che è caduto su Giampilieri, si intravedono le carcasse di alberi bruciati durante gli incendi estivi. Cinque metri più in là, la vegetazione ha invece trattenuto fango e rocce.

Sui luoghi delle sciagure, i dialetti si moltiplicano. Arrivano pompieri da Napoli, Pisa e Viterbo, poliziotti da Catania, finanzieri dalla Toscana. Quando scende in campo la Procura che apre un fascicolo contro ignoti, scatta lo scaricabarile. Spuntano richieste di fondi mai stornati, demolizioni mai effettuate, bollettini meteorologici contestati. Tutti contro tutti, mentre le vittime oltrepassano la ventina, gli sfollati sono quasi un migliaio e vengono dirottati in quattro hotel cittadini. Il fronte del disastro si allarga: a Briga marina, frazione anchʼessa isolata, i soccorsi arrivano con colpevole ritardo.

La domenica mattina inizia con il sorvolo delle aree disastrate da parte del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che al termine del giro incontra gli sfollati e li rassicura: “Seguiremo il modello LʼAquila”, spiega il premier prima di fare il punto della situazione davanti ai giornalisti che non possono fare domande. Fuori dalla Prefettura il premier viene contestato. Sui Tg nazionali non ce ne sarà traccia, la rete invece viene inondata dai video. Alla partenza di Berlusconi, anche i furgoni delle reti televisive iniziano alla spicciolata a lasciare la città. I riflettori iniziano a spegnersi, le polemiche continueranno ancora per qualche giorno.

Nel frattempo, si inizia a guardare al domani. Sul tavolo del sindaco Giuseppe Buzzanca  arriva la localizzazione delle aree in cui sorgeranno le “new town” auspicate da Berlusconi, le prima indicazioni segnalerebbero Mili, Galati, Larderia, Zafferia e Santa Margherita. Tutte zone “opinabili” per una ragione o per lʼaltra. Questa è Messina, questa è la sua geografia, prendere o lasciare. Il domani è questo, per chi è riuscito a sopravvivere. Un domani che non ci sarà per chi è rimasto vittima dellʼincuria, del pressappochismo, delle facce contrite e dellʼassenza di regole e di controllo da parte di chi sarebbe deputato a farle rispettare. E come epitaffio, quattro paesi cancellati dalle carte geografiche. E trentasette lapidi. Che chiedono giustizia.

La fine di quei giorni è terrificante, forse ancora più dell’inizio, ed è una frase: a pronunciarla un funzionario degli uffici tecnici del comune di Messina. “Se vi stupite per quello che è successo a Giampilieri, allora pregate che non piova mai così a Messina”.

 

(Questo articolo è apparso originariamente sul settimanale Centonove, il 9 ottobre 2009) 

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