Sono sbarcato a Sydney nel 2007.

Prima di allora avevo vissuto per anni lontano dalla Sicilia, come migliaia di altri, ma “lontano” diventò un concetto completamente diverso: tra la Sicilia e Sydney ci sono più di 16.000 chilometri (lo dico anche a beneficio di chi mi ha inviato quella pur volenterosa cartolina).

Tra le migliaia di italiani che ogni anno vanno a vivere lontano dall’Italia, faccio parte del gruppo che ha scelto il posto più lontano: oltre questo, c’è solo il Polo Sud. 

Nessuno finisce così lontano per caso. Ognuno ha dei motivi, validi o meno, alcuni coscienti, altri da scoprire lungo il cammino.

Tutti, però, ci troviamo ad un giorno di aereo da quel che continuiamo, negli anni, a chiamare “casa”.

Il primo impatto con l’Australia è necessariamente potente. Non solo per le aspettative (qualunque esse siano), ma anche perché dopo 24 ore di volo entri in uno stato di stanchezza trascendentale, un misto di euforia, frustrazione e spossatezza che nemmeno la peggiore metanfetamina. Vedi persone e oggetti quasi circonfusi di luce. Ti aggiri con una leggerezza drogata, come se non fossi tu. Ti trovi dall’altra parte del mondo, quella sottosopra (rispetto a prima). Se sei partito con l’estate, hai trovato l’inverno. Se a casa tua è giorno, lì è ormai notte. Persino lo scarico del bagno (come ci insegnano ancora i Simpson) va nel senso opposto al nostro.

Registri appena tutte queste informazioni, stanco ed eccitato come sei. Nemmeno ti viene da pensare che nemmeno 30 anni fa, per fare un percorso del genere servivano un paio di mesi per mare.

No, egoisticamente pensi alla tua personale prova di coraggio: quella dove dopo 6 ore hai già visto 4 film, mangiato, bevuto, dormito, litigato col tuo vicino di sedia e sei pronto per scendere e sgranchirti le gambe, e invece sei solo ad un quarto del tuo viaggio.

Quella dove fai scali improbabili in aeroporti improbabili, trascinandoti da un gate all’altro, cercando di non addormentarti fuori da qualche bagno e di non sbagliare aereo.

E di chiamare casa che sennò si preoccupano. E perchè, in fondo, già un po’ ti mancano.

All’aeroporto di Sydney, in questo stato catartico un po’ fantozziano, ti vengono improvvisamente in mente tutte quelle scene di “Airport Security”, quel programma in onda anche in Italia e che fa capire subito cosa aspettarsi da questo simpatico Paese: sorrisi e pacche sulle spalle, ma se hai anche solo addosso un Buondì che ti sei scordato chissà da quale autogrill in Italia, allora sono proprio cavoli amari. Amarissimi.

Gli australiani, o aussies, sono molto contenti di quel programma perchè veicola perfettamente il messaggio: qui le regole ci sono e vanno rispettate, quindi occhio.

Vedi scene da thriller per una borsa piena di merendine cinesi o di frutta secca dal Sudamerica. Cose che farebbero ridere gli italiani più scafati (perché noi siamo toghi e ce ne freghiamo delle regole, e viviamo sempre come rockstar in attesa di sfondare), ma qui c’è poco da ridere.

Conscio di questo, cominci a farti mille paranoie: e se avessi un Buondì anch’io da qualche parte? Se mia mamma a mia insaputa mi ha infilato una pignolata nella valigia? Avrò nascosto abbastanza bene la parmigiana di melenzane tra i boxer?

Sono attimi interminabili quelli al controllo valigie. Ti senti come Johnny Depp in “Blow” ma senza la droga (e senza essere Johnny Depp, s’intende). Eviti il contatto visivo, cercando allo stesso tempo di sembrare disinvolto nel farlo –e in questo ti sono servito anni e anni di training giornaliero all’ Archimede. Non puoi nemmeno far finta di telefonare perchè non hai ancora la SIM australiana –e comunque i telefoni sono vietati qui.

Eccoci. Il tizio mi guarda, mi chiama per nome, poi abbozza un “Ciao bambino” che lo fa scoppiare a ridere, e mi lascia passare, con me pronto a partorire un mattone lì davanti a tutti.

Solo la porta a vetri ti divide dall’Australia là fuori, ormai. Esci che è buio, in una sera di inizio settembre. Fa molto freddo e le stelle sono lucide. L’inverno è stato rigido, ti dicono, ma sta per finire. Ti sei appena lasciato l’estate alle spalle –insieme a tante, tante altre cose.

Respiri piano, come fosse la prima volta che lo fai. Come se stessi nascendo.

O rinascendo, se vogliamo.

Là davanti a te c’è un mondo di gente folle che guida a sinistra, beve tè con quaranta gradi all’ombra, mangia in maniera improbabile e osa persino sorriderti un buongiorno prima delle 9 del mattino.

Tu continui a respirare piano. Sei arrivato dall’altra parte del mondo, che più lontano non si poteva. Ti manca casa, e ancora non hai capito dove ti trovi. Sei stanco, e non sei mai stato così in forma.

La tua avventura latinoaustraliana può cominciare.

 

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