Antoine Fabre d’Olivet era un esoterista francese ottocentesco. Genio e cialtrone al contempo, come tutti gli esoteristi, egli scrisse tra gli altri un libro in cui presentava un’astrusa ma affascinante lettura cabalistica di testi biblici. Ma non di questo aspetto – trascurabile – intendo qui parlare. Ciò che mi ha colpito in questo ponderoso e fumoso volume (La langue hébraique restituée, Paris, 1815) è invece il passo in cui l’autore afferma che gli Arabi e gli Ebrei sono lo stesso popolo, o meglio come le due facce di una stessa medaglia. Entrambi infatti, facendo risalire le proprie origini a un preteso patriarca Heber (Abramo?), ne hanno poi modificato il nome nei rispettivi dialetti, “Hebri” per gli ebrei e “Habri” per gli arabi; e poiché Heber significa “ciò che termina”, “ciò che tramonta”, i due termini – Ebrei e Arabi – in effetti non esprimono altro che il fatto di trovarsi a occidente rispetto a un luogo, l’Asia, considerata la Terra di Dio per antonomasia:

(…. les noms que nous donnons aux Hébreux et aux Arabes, quoiqu’ils paraissent très-dissemblables, grâce à notre manière de les écrire, ne sont au fond que la même épithète modifiée par deux dialectes différens. Tout le monde sait que l’un et l’autre peuple rapporte son origine au patriarche Héber: or, le nom de ce prétendu Patriarche ne signifie rien autre chose que ce qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. Les Hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé hébri et les Arabes harbi, par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu’on prononce hébri, soit qu’on prononce harbi, l’un ou l’autre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou au-delà, ou à l’extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d’une contrée. Voilà, dès les temps les plus anciens, quelle était la situation des Hébreux ou des Arabes, relativement à l’Asie, dont le nom examiné dans sa racine primitive, signifie le Continent unique, la Terre proprement dite, la Terre de Dieu).

Strampalata che sia tale interpretazione, essa ha però il merito, come tutte le ipotesi fuori del coro, di farci intravedere una maniera nuova di guardare alle cose, in questo caso alla madre di tutte le questioni. Qual è infatti il cuore di tutti i problemi, la radice dei terrorismi e dei conflitti? Perché c’è il terrorismo nel mondo? Perché sono crollate le due torri, e perché sono crollate “con timore e tremore”, come se invece che nel pianeta terra noi ci trovassimo in un cupo universo alla Tolkien? Io credo che tutto ciò sia avvenuto, e continui ad avvenire, perché le due facce della medaglia hanno smemorato la propria natura. Come se due fratelli, immemori dei legami di sangue che li uniscono, prendessero a combattersi perché ognuno dei due pretende la titolarità della casa in cui entrambi vivono. Da cosa deriva la guerra, l’odio, l’inimicizia tra questi due popoli che credono in un unico Dio e spendono tanta parte del proprio tempo a dialogare con Lui?

Alcuni ritengono che tutto sia riconducibile alla terra e alle risorse, a problemi insomma concernenti l’economia o le scelte strategiche che contrappongono oggi nel nostro pianeta due blocchi impermeabili l’uno all’altro. C’è indubbiamente del vero in tale interpretazione, ma sarebbe una visione disperatamente contabile e ragionieristica dell’esistenza quella che pretendesse di spiegare tutto con i flussi demografici e i prodotti interni lordi. Tutto ciò ha certamente un enorme peso, ma alla radice dei problemi… Ecco, alla radice dei problemi io ritengo che ci siano sempre “affari di cuore”. Cosa intendo dire, cari lettori? Intendo dire che è forse giunto il momento di ribaltare il nostro modo di leggere la realtà. Noi pensiamo di solito che la globalizzazione abbia ormai definitivamente scritto le regole con le quali sarà governato il mondo nei prossimi secoli. Tutti ci credono, e il fatto che circa duecento multinazionali detengano il cinquanta per cento delle risorse planetarie ad alcuni fa perfino piacere; se i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ciò è comunque un fare chiarezza sulle cose, essi pensano, così si capisce finalmente qual è la legge dell’esistenza.

Che ne pensate? Vi piace un mondo così? Io credo di no. La verità è che, se vogliamo intravedere “cieli nuovi e terra nuova”, dobbiamo iniziare a combattere, ma non già contro nemici esterni a noi. I nostri nemici, cari miei, ce li portiamo dentro come tanti microscopici gremlins pelosi, e si chiamano razzismo, diffidenza, intolleranza, egoismo, integralismo, durezza di cuore, “ladritudine”. Ecco gli affari di cuore che vanno risolti per il conflitto arabo-israeliano! Non dimentichiamo che la Palestina d’inizio Novecento era una sorta di paradiso terrestre in cui coesistevano pacificamente i due popoli e le due religioni. Gran Bretagna e Società delle Nazioni, e poi dopo il secondo conflitto mondiale l’O.N.U. nel giro di pochi decenni riuscirono a trasformare quello che era stato un luogo di tolleranza in una terra di conflitti, nella quale ai danni del popolo che da millenni aveva abitato quell’angolo di mondo si venne poco a poco perpetrando un vero e proprio apartheid.

Nel bel romanzo di Umberto Eco “Il pendolo di Foucault” uno dei personaggi, l’ebreo Diotallevi, muore per aver sviluppato, attraverso una pratica cabalistica ridotta e svilita a fantasie e giochi di parole privi di senso, un cancro, che giunge così a sancire lo scollamento radicale tra la realtà e le sue rappresentazioni, e quindi l’impazzimento delle cellule che non si riconoscono più solidali l’una con l’altra.

Guardate quello che avviene in queste ore nella Striscia di Gaza. I cadaveri dei bambini uccisi dai soldati israeliani sono ormai ridotti al ruolo di messaggi corporei, di urla del silenzio scagliate in faccia a un Occidente cinico e opulento che nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere che là si consuma l’Olocausto del ventunesimo secolo.

Sono in molti oggi a praticare lo scollamento totale tra la realtà e le sue rappresentazioni. Questo è il cancro che mina l’Occidente. Questo è il cancro che potrebbe distruggerlo. Ogni volta che muore qualcuno in un’altra parte del mondo, e qualcun’altro pensa che la cosa non lo riguardi o che ci siano ragioni superiori a giustificare l’orrore, la metastasi raggiunge e consuma nuovi tessuti.

Non riesco a pensare ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese, da molti anni forse la più grave minaccia per la pace dell’intero pianeta, se non attraverso un serio ripensamento da parte dell’Occidente dei propri fondamentali ideologici ed umanistici, delle libertà e della democrazia che dai Greci fino agli Illuministi questa parte di mondo ha prodotto e diffuso, e che adesso si sono diabolicamente ribaltate nella loro negazione.

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