“Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti” è il titolo di uno splendido libro di Anita Seppilli, antropologa atipica e geniale che ci ha lasciato indagini memorabili su svariati aspetti dell’immaginario occidentale.

Benché ai nostri tempi non si creda più nei miti, quelli che portarono la civiltà (filosofia, arte, diritto etc.) in Europa, dico i nostri “padri fondatori” greci e latini, ci credevano. Per loro ad esempio ogni discontinuità tra una terra e l’altra era carica di sacralità. Ritenevano infatti che se due territori si trovavano separati dall’acqua, certo al volere di un dio fosse da ascrivere una tale condizione. Perciò l’attraversamento degli stretti veniva da essi percepito come un atto oltremodo rischioso, e di ciò troviamo traccia nelle avventure degli Argonauti e in quelle di Odisseo, i primi impegnati nel passaggio del tratto di mare delimitato dalle Simplegadi, le rocce cozzanti tra loro, il secondo che si azzarda a transitare tra i due mostri Scilla e Cariddi (e sappiamo bene come andò a finire all’empio mentre gli Argonauti, che consigliati da Atena avevano accortamente compiuto un sacrificio prima della prova, scamparono ai gorghi del Bosforo). Anche l’Ulisse dantesco sconta la sua “hybris” di aver varcato le colonne d’Ercole con la morte per acqua che lo sommerge e gli toglie l’esistenza.

L’origine di queste credenze è forse da ricondurre agli svariati quanto universali archetipi psichici relativi al trauma della nascita, a ben vedere il primo dei “passaggi pericolosi” e degli “attraversamenti dello stretto” che il genere umano sperimenta e che esso ha perciò in qualche modo sedimentato, una generazione dopo l’altra, nel proprio patrimonio genetico (su questi temi esiste una monumentale opera dell’etnologo e psicoanalista ungherese Géza Róheim, “The Gates of the Dream”).

Oltrepassare gli stretti fu dunque ritenuto atto di sfida, al contempo pericoloso e sacrilego; ma ancora più rischioso e più empio venne reputato unire le due sponde di uno stretto con un ponte; qui il sacrilegio toccava il suo culmine, giacché esso non si esauriva in un’azione limitata nel tempo come l’attraversamento di un braccio di mare, ma poneva in essere una struttura di congiungimento destinata a durare, e quindi a perseverare nell’atto sacrilego codificandone la “normalità”. Il “Pontifex” (facitore di ponti) doveva avere, per usare un linguaggio non raffinato, due palle così per fare onestamente il proprio lavoro, perché ogni ponte era in qualche misura una sorta di varco tra il qui e l’altrove, e come tale esso non era previsto in un mondo ordinato, sconvolgendone l’armonia. Così, una serie sterminata di leggende ha come motivo principale quello del “ponte pericoloso”, che si spalanca a precipitare negli abissi gli indegni che lo attraversano, potente metafora di come le torri di Babele che l’uomo costruisce siano destinate prima o poi a crollare (con conseguente confusione delle lingue).

Questa premessa mitologica trova la sua giustificazione laddove la si ponga a confronto con un altro corposo ciclo mitologico, sviluppatosi però ai tempi nostri, che è quello concernente il Ponte sullo Stretto.

Perché dico che sempre di mitologia si tratta? Perché è palese che se un’opera concepita oltre mezzo secolo fa ma da sempre pensata non ha ancora trovato realizzazione, è altamente probabile che più che la sua realizzazione sia stata, e sia sempre più divenuta, importante la sua “retorica”.

La retorica sul ponte ha una lunga storia. In effetti, gli albori di questo sogno furono piuttosto caratterizzati dalle persuasione che una struttura di attraversamento stabile dello stretto di Messina potesse rivestire una qualche utilità. Dal ponte di barche ideato da Lucio Cecilio Metello, di cui ci trasmettono memoria Strabone e Plinio il Vecchio, passando per Carlo Magno, i re Normanni e quelli Borbone fino alla metà del XIX secolo, la realizzazione del ponte è un’idea basata sul desiderio di unire due sponde caratterizzate da forti omogeneità orografiche, storiche, culturali. Ancora con tale approccio un viaggiatore come Louis Énault nel 1852 si interrogava sulla possibilità che un ponte unisse le due rive dello Stretto (“costruire sul mare, gettare sugli scogli un ponte gigantesco e, riparando così i torti della natura, restituire all’Italia questa cara Sicilia che le hanno strappato le onde”).

È con lo Stato unitario che il discorso sul Ponte si fa retorica. Da Jacini a Zanardelli, e poi via via in un crescendo tumultuoso di volontà progettuali e costruttrici, l’affaire si rivela un micidiale strumento politico, imprescindibile nella cassetta elettorale degli attrezzi di un numero imprecisato di personcine che danno fiato alla bocca discettando di “strozzatura” a proposito di quel breve tratto acqueo di mare, cui viene attribuita ogni responsabilità del sottosviluppo siciliano, sforzandosi di rimuovere il fatto che quel sottosviluppo è viceversa da ricondurre a malavita organizzata, corruzione pubblica, mancanza di interventi infrastrutturali, carenza di progetti educativi. Inerzia e furbizia di una dinastia, quella Savoia, che ha sempre guardato al Meridione e alla Sicilia come Indias de por açà, come colonie da sfruttare, paradisi abitati da diavoli…

Ancora oggi sentiamo fior di Soloni discettare di corridoi, di visioni strategiche, di impegni europei e internazionali, di magnifiche sorti e progressive, di progetti fantascientifici destinati a scontrarsi col fatto che per arrivare con un mezzo pubblico da Messina a Caltagirone occorrono quattro ore. E sarebbe lo Stretto l’imbuto?

Intanto quest’ultimo rimane, e credo rimarrà a lungo, aperto dinanzi a noi nella sua smagliante bellezza.

È una sorta di ombelico del Mediterraneo, trovandosi al contempo equidistante e luogo di interferenze tra nord e sud, tra est e ovest. In ragione di tale peculiare posizione ha registrato nel corso del tempo il passaggio e spesso lo stanziamento di numerosi popoli e culture, portatori di forme assai diverse di civiltà; a seguito di ciò esso si è venuto costituendo come un palinsesto territoriale che ha visto progressivamente stratificarsi contesti, fenomeni e realtà “immateriali” di varia natura, fabulazioni, saperi, memorie che dal mondo antico fino ad oggi hanno continuato a segnare con la loro molteplicità lo specialissimo habitat antropologico che si è determinato in questo tratto di mare, finendo con il costituire un unicum di cui non esiste eguale.

Che diventerebbe esso con un’incongrua propaggine di acciaio a sovrastarlo? Forse che le navi smetterebbero di attraversarlo e i collegamenti per mare cesserebbero? Lo credono solo i managers delle ex Ferrovie dello Stato, ora Trenitalia, che hanno colpevolmente delegato a una dinastia di privati la gestione principale del servizio.

Lo sanno anche loro, quelli per i quali il Ponte sullo Stretto è la Torre di Babele del terzo millennio, che esso è una meta che sempre più si allontana, come l’orizzonte nel deserto o in aperto mare. Solo che fa comodo – lo è da molto tempo – cavalcare la tigre di quest’opera. Il parlarne sortisce l’effetto miracoloso di infiammare gli animi e spostare i consensi. Non si fa, non si farà mai, ma è opportuno che permanga quale nostro costante e perenne orizzonte simbolico. D’altro canto è ragionevole che essendo stati uccisi gli antichi miti qualcuno si incarichi di apparecchiarne di nuovi…

Forse nessuna divinità si prenderà la briga di atterrire gli empi che hanno ardito concepire il ponte sullo stretto, questa mostruosità che fa a pugni con l’ecologia, l’economia, la qualità della vita e tante altre cose belle e buone. È auspicabile tuttavia che in questo nostro distratto paese almeno la comunità civile si faccia carico di punire col voto l’arroganza dei nuovi sacrileghi.

Conclusione: fatelo pure il vostro ponte ma, come dicevano i pacifisti americani a proposito della guerra, not in our name“.

Ma forse è una conclusione troppo triste… lasciatemi dunque, amabili lettori, concludere con le auree parole di un politico dei nostri giorni:

Noi costruiremo un Paese nuovo, dove è possibile anche avere due mogli, anche non pagare le tasse: un Paese di pilu e cemento armato! E se il Ponte non basta, faremo anche il Tunnel, perché un buco mette sempre allegria: qualunquemente!” (Cetto La Qualunque)

 

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Giovanni Mollica
Giovanni Mollica
8 Febbraio 2018 9:41

Ma come si fa a paragonare un ponte con la guerra del Vietnam? Bisogna essere irrimediabilmente malati di ideologismo. Ci sono migliaia di meravigliosi ponti nel mondo e nessuno ha alterato le leggende e i miti che erano fioriti nel territorio, da quelli vichinghi ai 3 ponti sul Bosforo o quello di Galata sul Corno d’Oro. Guardate com’è ridotta questa città e non scaricate sugli altri le vostre os

Salvatore Calabrò
Salvatore Calabrò
16 Febbraio 2018 22:23

Da Montalto in sul colle Messina bella mi appari,serrati tetti, sporgenti campanili,la Madonna col suo braccio le navi saluta e nel segno di pace trova riposo lo stanco viaggiatore. Tocchi di campane rimbalzano sulle onde, quasi eco sulla Calabria di fronte. L’alto traliccio offre Scilla a Cariddi, memori ancora del mitico eroe. Geme l’omerica musa all’idea di un ponte sullo Stretto costruito.