“Sono convinto che mio fratello ci guiderà verso la verità”, così parla Gianluca Manca nel giorno della commemorazione della morte di Attilio.

Tredici anni sono passati da quando l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto perse la vita in circostanze ancora tutte da chiarire. Tredici anni senza risposte, o meglio, con risposte che potrebbero essere state frutto di un vero e proprio depistaggio. Ad accertare queste ipotesi sarà la nuova indagine aperta appena due mesi fa dalla procura di Roma alla quale quella di Messina ha trasmesso i verbali con le dichiarazioni, tutte da verificare, di Carmelo D’Amico. Così si riaprono le speranze dei familiari, difesi dagli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia: “Abbiamo le prove che mio fratello si trovasse a Marsiglia negli stessi giorni in cui fu operato alla prostata Bernardo Provenzano, e che il boss si sia fatto curare per i postumi dell’intervento nella provincia di Viterbo: ci chiediamo quale urologo lo abbia curato proprio in quella provincia. Sappiamo e abbiamo le prove ma non abbiamo alcuna fiducia nelle istituzioni, nessuna speranza. Solo un’opinione pubblica vigile può aiutarci ad uscire d questi anni di oblio”.

 

Ma chi era Attilio Manca e cosa è successo in 13 anni?

Uno dei migliori nel suo campo, Manca fu il primo urologo in Italia ad eseguire l’intervento alla prostata in laparoscopia. Nato a Barcellona Pozzo di Gotto, in servizio all’ospedale di Viterbo, morì l’11 febbraio del 2004. Poco prima, nel novembre 2003 Bernardo Provenzano era stato sottoposto ad un intervento alla prostata a Marsiglia. Il cadavere dell’urologo fu ritrovato il 12 febbraio successivo nella sua abitazione laziale. L’autopsia rivelò la presenza nel sangue di un mix di droghe e barbiturici e le prime indagini della procura di Viterbo si chiusero dichiarando Manca morto suicida. Il caso fu però riaperto altre tre volte fino ad arrivare al processo per omicidio di cui è accusata Monica Mileti, per lo spaccio della dose di eroina risultata letale. Processo per il quale è stata rifiutata la costituzione di parte civile della famiglia Manca: “Unico caso in Italia”, sottolinea il fratello della vittima. Tra le numerose incongruenze denunciate dai familiari la mancata verifica dei tabulati, secondo la madre di Attilio, Angela Manca, suo figlio si trovava a Marsiglia negli stessi giorni in cui Provenzano fu operato alla prostata nella città francese. Nelle foto del cadavere, inoltre, evidenti risultano i segni di una colluttazione: il setto nasale deviato, i polsi da cui si evince che è stato trattenuto e legato. Oltre il corpo anche l’abitazione ha mostrato evidenze: i termosifoni erano accesi con temperatura di 30 gradi, mentre nelle due siringhe usate presumibilmente per l’iniezione di droga non è rimasta nessuna traccia di impronte, nemmeno quelle di Manca.

Ma ancora: la presenza a Viterbo nei giorni della morte di Attilio, del cugino Ugo Manca, considerato vicino alla cosca barcellonese, le cui impronte furono trovate in una mattonella del bagno di casa della presunta vittima. Le incongruenze ma anche le dichiarazioni: il braccio destro di Provenzano, Francesco Pastoia, fu intercettato nel carcere di Modena dov’era detenuto mentre parlava degli omicidi commessi da “Binnu u Tratturi”, come veniva chiamato il boss: “Provenzano è stato operato ed assistito da un urologo siciliano”. Così parlò Pastoia tre giorni prima di morire impiccato in carcere. A parlare di Manca, anche Giuseppe Setola, ex capo del clan dei Casalesi, al quale Giuseppe Gullotti, boss dei barcellonesi (fu lui a consegnare a Brusca il telecomando della strage di Capaci) rivelò l’origine mafiosa della misteriosa morte dell’urologo.

Infine Carmelo D’Amico che poco più di un anno fa indicò come esecutore dell’omicidio Manca un “ufficiale dei servizi”, uno “bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi”. È questo l’ultimo inquietante identikit dell’assassino dell’urologo barcellonese, così dopo anni di indagini che hanno sempre escluso ogni collegamento tra la morte di Manca e la mafia siciliana, il nuovo elemento, messo nero su bianco tra le carte in mano ai giudici di Messina, trasmesse alla Procura di Roma,  porta dritto all’intreccio tra Stato e mafia: “Un uomo delle istituzioni”, così lo ha definito D’Amico, ex capo della sezione armata della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto, nel verbale del 13 ottobre 2015, depositato solo ai primi di gennaio e che ha fatto riaprire l’indagine dalla procura guidata da Giuseppe Pignatone a dicembre scorso.

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