Di Alessio Caspanello, Claudia Mangano e Marino Rinaldi
MESSINA. A farsi le canne è circa uno studente messinese su quattro (il 25%) e si abbassa sempre più l’età media di chi assume cocaina, eroina e mdma, con tanti ragazzini che “entrano nel tunnel” già a dodici o tredici anni, anche grazie al sostanziale calo dei prezzi, che rende accessibile una dose o una pillola un po’ a chiunque, col crack che ormai è diventato acquistabile, in quantità e frequenza quotidiane, anche solo coi soldi della paghetta settimanale di un adolescente. Il tutto mentre “la droga” non sembra più essere un problema sotto i riflettori, se non di chi il dramma lo vive in casa o sulla pelle dei familiari.
Sono alcuni dei dati sul consumo di stupefacenti a Messina forniti dal centro di solidarietà F.a.r.o, che da 40 anni si occupa di accogliere, accudire e rimettere in sesto tossicodipendenti di ogni età, dai tempi oscuri dell’eroina all’avvento delle droghe sintetiche. Quattro decenni di attivismo durante i quali l’uso (e l’abuso) di sostanze psicotrope è radicalmente mutato, così come sono cambiate nel tempo le dinamiche, le abitudini, le dipendenze e gli stessi stupefacenti, che in riva allo Stretto continuano a scorrere a fiumi, fra luoghi di spaccio, storie tossiche, narcotraffico e nuovi “clienti” imberbi.
La dama bianca
È il 1983. O il 1987, fa lo stesso, e non sarebbe stato tanto macabro neppure se fosse stato voluto: a Messina, uno dei più conosciuti luoghi di utilizzo di eroina era una stradina poco illuminata, in discesa, con scalinate poco raccomandabili, dal nome sinistramente appropriato. Era la via Dama bianca, uno degli angoli di quel quadrilatero compreso tra corso Cavour e via Tommaso Cannizzaro in cui nel decennio che andava dalla fine degli anni ’70 fino a oltre metà degli ’80, la gioventù messinese, in numero straordinariamente alto, ha provato, goduto e subìto lo stordimento esistenziale e il caldo abbraccio dell’eroina.
Un abbraccio che non faceva distinzioni di età e classe sociale: giusto dietro il liceo blasonato sul Corso Cavour, per dieci anni è esistito un mondo popolato da creature emaciate, crepuscolari, caracollanti, con sguardo liquido e ferite che non si rimarginavano, che ciondolavano in ambientazioni da cripta e atmosfere da fumeria d’oppio, di fronte alle siringhe piantate sui pali del campetto della Mazzini, lungo il pavè umido sulla Via Peculio Frumentario, davanti a scritte con la vernice nera sui muri dell’oratorio di Via Lenzi: “Victrola on stage”, come recitava uno slogan inneggiante a una band messinese dell’epoca, o il misterioso accanimento di qualcuno contro i Pooh, dileggiati in una serie di scritte sovrapposte a quelle, altrettanto inspiegabili, di qualcuno che ne aveva tessuto le lodi (“Pooh degni, Pooh gente seria”, che diventavano “Pooh indegni, Pooh gente poco seria”). Un quadrilatero di viuzze che come un cancro lasciava prosperare al suo interno cellule impazzite e narcotiche, subito dietro la facciata illuminata e rispettabile della via del centro.
A Messina, più che un dramma sociale come altrove, è una questione di tragedie familiari: in una città intimamente conservatrice, una figlia nel fiore dell’età che torna a casa la mattina presto, dimagrisce, inizia a non andare più a scuola, è un
fardello che molte famiglie piccolo (o grandi) borghesi semplicemente non possono e non vogliono accettare. E insieme ai figli che si perdono di vista, perché diretti in comunità, scompaiono anche i genitori, per non sopportare i giudizi trancianti, gli sguardi di commiserazione, i sussurri “ci capitau una maloccasione”, sia mai che si chiamino le cose col loro nome, i colpetti di gomito al loro passaggio. Non scompaiono solo figurativamente: a Messina negli anni ’80, non era difficile trovare una ragazza in overdose sugli scalini di una chiesa, e dopo due settimane la madre in una pozza di sangue, raggiunta in faccia dalla pistolettata degli sgherri dello spacciatore che aveva denunciato.
Come nel resto d’Italia, l’invasione di aghi e siringhe è una questione di “mercato”: la “China White”, che fra tutte è la più pura, la “Black Tar”, scura come il catrame, la “Brown Sugar”, la più diffusa e comune, che diede il nome a un brano degli Stones, si trovano prima a prezzi stracciati, poi manco a pagarle oro. Domanda, offerta e crisi, provocate ad arte per farlo diventare un affare renumerativo, con decine di zombie in astinenza lungo le strade, ad attendere i carichi dalla Calabria. Per un “buco” ogni posto è quello buono: in macchina, sotto ai ponti, nei giardini, nei bagni pubblici o nei vari centri sociali che fungevano da luogo di ritrovo per emarginati, antagonisti e controculture, mentre man mano cresce la psicosi collettiva, quella dalle fantomatiche “caramelle con la droga diffuse dagli sconosciuti” o delle leggende metropolitane delle scritte sui muri (“Dio c’è”, improbabile acronimo di ‘droga in offerta’).
È soprattutto intorno a metà degli anni ’80 che si assiste impotenti a una vera strage generazionale a causa dell’Hiv e delle altre infezioni trasmissibili con la condivisione degli aghi, e pian piano anche in città si prende coscienza della gravità del problema e iniziano a sorgere le prime comunità di recupero. Dopo il boom degli anni ‘80, l’eroina sparisce in modo graduale dalle piazze di spaccio cittadine, per tornare a fare capolino in momenti sporadici, ma con una diffusione sempre meno capillare: tornerà a farla da padrone nei primi anni del nuovo secolo a piazza Municipio.
La bamba
A non passare mai di moda è invece la cocaina, che si diffonde a Messina soprattutto negli anni ’80, divenendo ben presto “la droga dei ricchi”, con polvere bianca che scorre a fiumi (e a strisce) nei salotti borghesi, nei bagni delle discoteche più in voga della provincia e nei festini, in una città che a modo suo scimmiotta l’edonismo imperante della Milano da bere. Se l’eroina era stato più un fenomeno adolescenziale e giovanile, la cocaina è preferita dai più grandi. I locali che iniziano a sorgere negli anni ‘80 e ’90 si popolano di varia umanità ben piantata negli “anta” che dimostra un’energia sospetta, una loquacità difficilmente equivocabile e atteggiamenti sopra le righe facilmente riconducibili a un robusto aiuto chimico.
«Chi un tempo si faceva di eroina – spiega Gabriella Calabrò della Lelat – voleva quasi fuggire da una società che si evolveva velocemente. Si trattava principalmente di personalità borderline nevrotiche. Oggi, in una società maniacale, la cocaina dà una gratificazione immediata e chi la assume è principalmente una personalità narcisistica. Prima chi si faceva si riconosceva, mentre la cocaina non fa avere la percezione negativa di sé stessi al mondo esterno».
A cambiare, nel passaggio fra l’eroina e la coca, sono il contesto, le dinamiche di vendita e soprattutto il prezzo: la “bamba” è infatti ben più cara e redditizia, ed è con essa che il mercato della droga diventa un impero. Grazie alla sua posizione nevralgica, l’antica porta della Sicilia diviene un crocevia fondamentale per il traffico di stupefacenti dalla Calabria, con piazze di spaccio organizzate, palazzine bunker che fungono da centri di smistamento, vedette, galoppini e pusher contigui ai clan mafiosi della zona. I centri nevralgici sono disseminati nei quartieri più delinquenziali: da Villa Lina a Gravitelli, da Provinciale a Santa Lucia sopra Contesse fino a Mangialupi, dove per decenni confluiscono tonnellate di roba proveniente soprattutto dall’Albania e dai Balcani. Vere e proprie roccaforti del narcotraffico sorte in mezzo alle baracche, con interi condomini trasformati in fornitissimi supermarkert della droga. Lo spiega, da anni, il rapporto semestrale della Dia, la direzione investigativa antimafia.
Gli anni ’90
Nei primi anni ‘90 la droga in città circola un po’ dappertutto, dai quartieri periferici ai luoghi della neonata movida: in Galleria, a Piazza Municipio, e anche fuori da alcuni fra pub e locali più frequentati dell’epoca. Sul mercato c’è l’imbarazzo della scelta: oltre alla marijuana e all’hashish, nelle loro infinite varianti (“Skunk”, “White Widow”, l’albanese, scarsoccia, e la calabrese, più ambita, per l’erba; il marocchino o l’afghano per il fumo), con il fugace ritorno dei pantaloni a zampa di elefante tornano anche le sostanze lisergiche (Lsd e funghetti), in voga soprattutto nei tardi anni ‘60, con la controcultura giovanile, gli anni della psichedelia e i movimenti studenteschi. Nel frattempo, la cocaina continua a imperversare in un pubblico sempre più trasversale e con il ritorno delle discoteche, inspiegabilmente scomparse in città per 15 anni, e il proliferare dei punkabbestia, amanti delle tribe tecno e dei rave party clandestini, fanno il loro esordio anche le droghe sintetiche. A queste si aggiungono le anfetamine, lo speed (una miscela di caffeina e anfetamina), la morfina, la ketamina (utilizzata come anestetico per cavalli), crack, popper, e chi più ne ha più ne metta.
L’approccio alla droga, all’epoca, è ancora del tutto “analogico”: per sballarsi bisogna recarsi fisicamente a comprare la sbobba, da consumare magari nei vari rave organizzati in città, dalle Colonie (sui colli) ai mega falò a Mezzana, fino ai party privati nelle ville. Figura di riferimento per habitué e curiosi è il pusher, di solito stanziale in luogo specifico e spesso identificato con nomignoli e soprannomi tanto evocativi quanto il gergo esoterico utilizzato nell’ambiente (“na facemu na bumma?”; “chi manciasti, pollo?”, “una storia da 50”; “na sticca”; “a sciobba”).
Lo sballo in pillole
Con l’arrivo degli anni 2000 lo scenario muta radicalmente e in maniera esponenziale per due motivi. Innanzitutto i cambiamenti culturali e le mode giovanili (il target di mercato più redditizio), con il proliferare della dance, della musica elettronica e della techno, e in secondo luogo l’arrivo dei social e degli smartphone, che hanno stravolto le dinamiche dello spaccio e del consumo.
Ad andare per la maggiore, nel nuovo Millennio, sono soprattutto le droghe sintetiche: pillole, pasticche e capsule multicolor che aumentano la presenza di serotonina alle terminazioni sinaptiche, provocando una forte sensazione di benessere e la rimozione delle “barriere emotive”. La più in voga è l’Mdma, o ecstasy, che si assume per via orale o disciolta in una bottiglietta d’acqua. Entra in circolo in 30-45 minuti. Poi sale la botta: una sorta di tumpulata nel cervello, con tutte le conseguenze del caso. Molto utilizzate negli ultimi anni, e in particolare da giovani e giovanissimi, sono anche le New Psychoactive Substances, progettate per imitare gli effetti di altre droghe, formalmente legali fino a quando non vengono inserite nella tabella delle sostanze stupefacenti. E mentre il crack – in forte crescita – continua a restare nell’immaginario collettivo come “roba da tossici”, la cocaina, il cui prezzo è sempre più accessibile, da droga di lusso è divenuta negli anni una perversione di massa. Il costo al grammo oggi? Da 60 a 80 euro. Due-tre amici, 20 euro a testa, e ci si fa la serata.
A cambiare è anche la vendita, che avviene per lo più on-line, dal deep web ai gruppi telegram, dove si può comprare un po’ di tutto. A fermare lo spaccio su Internet non è bastato nemmeno il lockdown, che anzi ha dato il là alle consegne a domicilio. Basta mandare un messaggio su Whatsapp, con un gergo in codice, e la droga viene consegnata a destinazione.
L’erba e il fumo
Discorso a parte meritano le droghe leggere, di gran lunga le più utilizzate, soprattutto fra i più giovani. Secondo il rapporto 2022 dell’Agenzia europea delle droghe, a farne uso, in Italia, è il 20,7% dei ragazzi fra i 15 e i 34 anni, e Messina, dove l’età media dei consumatori si abbassa sempre più, non si discosta molto da questi numeri. A farsi le canne sono studenti e professionisti, ragazzini e adulti, casalinghe e avvocati: tutti costretti, in un modo o nell’altro, a rivolgersi al mercato nero, alimentando così il già pantagruelico giro d’affari delle cosche e della criminalità organizzata. Il boom dell’erba e del fumo in città inizia fra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘70, e da allora il consumo è costantemente cresciuto, raggiungendo un pubblico sempre più eterogeneo, malgrado la repressione e le politiche proibizioniste, che non hanno portato agli effetti sperati. Anzi.
«Il contrario del proibizionismo è responsabilità: questo vale anche per il consumo di cannabis. Legalizzare è innazitutto una scelta antimafia, ovvero sottrarre alla criminalità organizzata un mercato che riguarda oltre sei milioni di consumatori e che porterebbe nelle casse dello Stato circa 7miliardi e 35mila nuovi posti di lavoro. Legalizzare darebbe anche benefici al nostro sistema giudiziario e carcerario, grazie alla depenalizzazione dei reati minori e destinando più risorse per la lotta al narcotraffico. E poi più banalmente, per i consumatori ci sarebbero migliori garanzie con un uso più consapevole e controllato, come dimostrato in stati come Canada e Germania e come risulta dall’ultimo intervento dell’ONU sulla fallimentare “War of Drugs”, ammonendo i Governi ad adottare misure alternative alla criminalizzazione, e ad istituire un modello di accesso legale a tutte le droghe. Infine penso a tutte quelle persone che potrebbero curarsi con la cannabis, ed invece sono bloccate dai tabù che ancora oggi impediscono a chi ne ha diritto di curarsi», spiega Palmira Mancuso di Più Europa.
Lo scenario, oggi
«In tanti iniziano già a 12 anni con fumo e crack, e infatti in comunità spesso entrano anche ragazzi di vent’anni. La penetrazione nel tessuto sociale è molto alta e pericolosa. Basti pensare che il 25% dei ragazzi in età scolare fa uso di cannabis», spiega Domenico Incorvaia, presidente del centro di solidarietà F.a.r.o. una struttura residenziale h24 che dal 1983 aiuta i tossicodipendenti a uscire dal tunnel. Fondata negli anni più neri dell’eroina, la comunità, ai tempi l’unica al Sud dopo quella di Napoli, nasce da un progetto basato sulla disciplina comportamentale. Il centro si articola su tre fasi di programma: l’accoglienza, che comprende la disintossicazione e l’incontro con la comunità (dalla durata di 4 mesi); il lavoro sull’individuo, che può durare anche 12 mesi, e infine il reinserimento, durante il quale la persona può uscire dalla struttura per cercare lavoro o andare a scuola. «Negli anni 80 – spiega Incorvaia – si parlava di droga come un vero e proprio allarme sociale. Adesso non se ne parla più ma il problema rimane, anche se sono cambiate molte dinamiche. Il cocainomane non si sente un tossico perché non si buca, ma lo è a tutti gli effetti: personali, familiari e sociali. Stessa cosa accade con il crack, che costa anche meno della cocaina ed è accessibile davvero a tutti. Non è un caso se c’è stato un abbassamento dell’età dei consumatori».
Non tutte le sostanze, tuttavia, portano in comunità: psicofarmaci, droghe sintetiche e allucinogeni creano meno dipendenza di quelle “classiche”: «C’è da aggiungere – spiega Incorvaia – che in tanti ne fanno un uso occasionale, e in generale, fino a quando la droga viene usata sporadicamente non c’è dipendenza». Quello che è cambiato è la diminuzione delle morti per overdose. Solitamente il crack e la cocaina non procurano problemi rilevanti e immediati al corpo e in molti casi a causare danni è la poli assunzione (chi si fa di cocaina spesso beve per diminuirne l’effetto prestazionale), mentre le morti per overdose di eroina accadono di frequente tra chi ricade anche solo una volta dopo essersi disintossicato, quando l’organismo pulito non è più abituato alla quantità di droga assunta precedentemente.
E il percorso di chi arriva in comunità?: «Di solito – spiegano dalla struttura – si inizia col fumo sin da giovanissimi, per poi passare all’alcol, alla cocaina e al crack. Secondo delle indagini compiute dall’Università San Raffaele su un campione di 2362 ragazzi tra i 14 e i 19 anni il 42% risulta positivo all’utilizzo. Fra questi, il 94% ha fatto uso di cannabinoidi, a cui vengono associate per il 14% cocaina e per il 10% ecstasy», conclude.