Chiunque abbia condotto studi sulla storia di Messina non riesce in genere a sottrarsi, dopo aver acquisito consuetudine con le fonti e i documenti che hanno fatto giungere fino a noi le memorie civiche, alla sensazione che la città, nonostante le profonde ferite che le sono state inferte dalla natura e dagli uomini, mantenga a tutt’oggi un’aura derivante assai probabilmente da quello che, con una certa approssimazione, potremmo definire il suo Genius Loci, non già inteso nel senso che gli antichi vollero conferire al termine bensì come potente metafora per adombrare il luogo virtuale in cui il mito e la storia trapassano l’uno nell’altra e viceversa, in un perenne e proficuo travaso di forme e di contenuti.

E tutto ciò Messina riesce ancora, seppure non sempre e in ogni caso non per chi la guardi con occhi distratti, a trasmettere in forza della condizione di palinsesto che la sua configurazione territoriale è venuta acquisendo a causa delle violente trasformazioni subìte per motivi sismici o bellici. Intendo insomma sostenere che accanto alla Messina piatta e banale che si è consegnata al terzo millennio, continua forse a esistere e a pulsare una Messina sotterranea, sorta di doppio della città ancora in grado di testimoniare degli eventi che in essa ebbero luogo e dei miti che intorno a essa si elaborarono in quella che Giambattista Vico definiva l’età della sapienza poetica.

E’ del tutto evidente che l’elemento determinante per il definitivo ancoraggio del genio al luogo sia rappresentato dalla posizione di umbilicus occupata da Messina rispetto al mar Mediterraneo, ossia in pratica all’intero bacino che vide nascere la civiltà occidentale, in un sito alla confluenza di correnti migratorie dalle provenienze più disparate e quindi teatro di avvicendamento di popoli e di culture, ma anche di miti e di leggende, di figure sacrali e numinose di vario genere: in pratica, luogo di negoziazioni continue di identità plurime nel corso del tempo. Se volessimo pertanto ripercorrere la storia di questa straordinaria città che a dispetto della sua specialissima posizione di assoluta centralità rispetto al Mediterraneo ha come investito nell’ultimo cinquantennio tutte le sue energie nel rendersi progressivamente vieppiù brutta e volgare, e rassegnata quasi alla propria opacità, se volessimo ripercorrere tale storia attingendo alle svariate mitologie sulle quali gli antichi esercitarono il proprio pensiero selvaggio, scopriremmo con una certa sorpresa che il genius loci si è qui prodigiosamente moltiplicato in un vero e proprio pantheon di figure numinose, tutte impegnate a vario titolo a fornire alla città coordinate mitologiche, geografiche, socio-religiose, esistenziali.

Così il falcetto con cui Crono, il più giovane dei sette titani figli di Urano, castrò il padre sarebbe poi stato da lui scagliato in questo Bosforo d’Italia dando luogo all’ampia zona falcata che contrassegna il porto di Messina. Così le peregrinazioni di Orione, forse già accecato dal padre della donna da lui violata, lo avrebbero condotto nell’area dello stretto, dove avrebbe atteso ad assicurare la configurazione definitiva della zona di Capo Peloro. In modo non dissimile gli scrittori, agiografi mitografi poligrafi, che tra il XVI e il XVII secolo vollero ancorare le origini della città dello stretto a un evento mitico avvenuto in illo tempore, in un tempo metastorico per ciò stesso fondante e garante di tutta la storia successiva, si appropriarono di brandelli mitologici provenienti da altri più vasti affreschi narrativi inserendo nelle vicende locali tali presenze agiografiche, eroiche o numinose, da Ercole a Eolo, da Odisseo a Enea, e poi nell’Era volgare da San Paolo a Sant’Antonio di Padova a San Francesco di Paola, da Re Artù alla sorella sua Morgana, eletti al rango di eroi civilizzatori, mitici progenitori o esseri dotati di una particolare carica sacrale, atta a conferire una volta e per sempre spessore e pregnanza, identità e memoria sempiterna al sito.

Se poi prendessimo in considerazione gli aspetti sotterranei della città, intendendo con tale termine tanto le vestigia di natura archeologica quanto i brandelli delle numerose e articolate tradizioni plutoniche consolidatesi nell’area dello stretto, anche in tale sfera emergerebbe uno spessore della città ancora in grado di assicurare a coloro che la abitano e la vivono sentimenti di appartenenza e di domesticità. Il Genius Loci impedisce quindi, di fatto, che il territorio della città venga percepito, come in effetti oggi accade, come non-luogo secondo la definizione di Marc Augé, come luogo privo di memoria e che anzi smemora chi lo abita sottraendogli ogni forma di ancoraggio.

Sotto tale duplice aspetto, basterà qui richiamare gli interessi antiquari, che costituiscono una cifra fondamentale per la comprensione delle caratteristiche assunte dalla produzione intellettuale, qui come in poche altre città impegnata a riportare alla luce le vestigia del passato prossimo e remoto di Messina, mentre sul piano della percezione popolare di tale articolazione sotterranea della città assumono valore la credenza intorno alla cosiddetta truvatura di Via Cardines, ove esisteva un tempo un’antica iscrizione osca sotto la quale si riteneva nascondersi un tesoro, disposto a rendersi patente ove un uomo a cavallo, attraversando al galoppo la via, avesse letto, ad alta voce e senza rallentare l’andatura, la scritta misteriosa; o quella concernente la presunta città sommersa esistente nei fondali del lago di Faro, zona nella quale secondo autori classici (Solino) esisteva nell’antichità un tempio dedicato a Nettuno i cui materiali sarebbero stati in seguito reimpiegati nell’edificazione del Duomo; e infine, nel più ampio comprensorio messinese, la tradizione concernente i tesori nascosti del Castello di Fiumedinisi, di Monte Scuderi e di altri luoghi incantati, dei quali è possibile impadronirsi a condizione di compiere, in prossimità dei siti che li custodiscono, riti particolari che ordinariamente mettono alla prova l’abilità e il coraggio (e quasi sempre a repentaglio la vita) di chi voglia per avventura tentarne la conquista. 

Tra le figure che segnano il trapasso dalla dimensione favolistica (anche nel caso di personaggi realmente vissuti: transitò veramente l’Apostolo Paolo per Messina? E il Santo Eremita di Paola, attraversò mai lo stretto camminando sulle acque?) a quella storica, va senz’altro ricordata la figura di Colapesce, non di certo perché più reale degli dei o eroi di classica memoria (basterebbe pensare quanti Cola Pesce o Pesce Cola o Nicolaus Pisces si trovano nelle leggende europee, dalla Norvegia alla Grecia), ma senz’altro per il suo porsi, forse per la prima volta nella storia della città, come elaborazione culturale emblematica e metaforica di un’anima popolare di essa, fino ad allora rimasta nascosta e occultata. Colapesce, giovane messinese secondo la maggioranza delle redazioni a stampa e versioni orali della leggenda a noi pervenute, è un essere che partecipa della duplice natura di uomo e di pesce a seguito di una maledizione scagliatagli dalla madre, esasperata per la sua eccessiva passione per il mare. In forza di tale sua ambigua condizione di uomo acquatico, Colapesce svolge una funzione socialmente utile all’interno della sua comunità: disincaglia le reti, avverte i pescatori degli imminenti fortunali e addirittura reca messaggi da una sponda all’altra dello stretto. La fama delle sue straordinarie capacità giunge fino all’Imperatore, che nella maggior parte delle versioni colte della leggenda è Federico II di Svevia, presente nella città dello Stretto nella primavera del 1221. Costui dunque, per curiosità e per soddisfare un capriccio che viene in quasi tutte le fonti presentato come naturale corollario dell’arrogante crudeltà dei potenti, obbliga il giovane Colapesce a dare prova delle sue capacità costringendolo ad intraprendere un vero e proprio viaggio agli inferi; egli dovrà infatti recuperare un oggetto prezioso (monile, anello, coppa d’oro o d’argento, corona ecc.) che l’Imperatore getta nel fondo del mare. Il giovane avendo eseguito con successo l’ordine del Sovrano, viene da costui costretto a ripetere la prova in condizioni sempre più difficili, fin quando fallisce e non riemerge più rimanendo per sempre sepolto sotto l’enorme coltre funebre del mare. In alcune certamente successive versioni della leggenda, è il giovane nauta a decidere liberamente di non riemergere e sacrificare così la propria vita, avendo egli scorto una delle tre colonne che sorreggono la Sicilia in stato pericolante e quindi bisognevole di un perenne puntellamento. 

Il tema leggendario, nella sua apparente semplicità, è ricco di antecedenti classici la cui presenza è da ricondurre ad una migrazione di temi analoghi dall’Ellade e dal mondo egeo-minoico alla Magna Grecia e successivamente al meridione d’Italia (Napoli, Puglia, Calabria, Sicilia) ed alla più vasta area del Mediterraneo occidentale (Francia e Spagna), e trae al contempo molti suoi motivi da tradizioni nordiche la cui penetrazione in Sicilia può essere ascritta ai Normanni. La figura di Nicola Pesce può essere inoltre ricondotta a Poisson Nicole, demiurgo trickster delle acque presente nella mitologia e nel folklore francesi, ma anche ad archetipi mitologici che risalgono fino al dio del mare Nettuno.

E’ ormai non più questionabile il ruolo fondamentale svolto dai Normanni per quanto concerne, sul piano culturale contestuale alla loro espansione politica, la migrazione di molte tematiche favolistiche, tra le quali quelle connesse alla tradizione epica carolingia ed arturiana. Secondo Anita Seppilli in tale trasmissione di elementi epici, che poi dal Sud si sarebbero espansi anche verso il Nord Italia, rientrerebbero anche “alcune leggende agiografiche intrise di miti e riplasmate su matrici antichissime”.

Di fatto, la vittoriosa penetrazione dei Normanni alla riconquista della Sicilia, che proprio da Messina prese l’abbrivio con l’entrata trionfale nella città dello stretto del Gran Conte Ruggero, è costellata di prodigi, interventi salvifici di santi e figure numinose, fondazioni di luoghi sacri, ed è caratterizzata da una sostanziale riscrittura organizzativa del territorio siciliano, cui offrirono un contributo decisivo i Basiliani. L’area messinese in particolare venne così a costituirsi come luogo di incontro e di mescolamento di elementi culturali sia nordici che orientali (greci e armeni in specie) i quali finirono col sovrapporsi non sempre espungendoli da sé, ai preesistenti elementi latini, bizantini ed arabi. 

Si può senza tema di smentita affermare che tale grumo magmatico di miti e di credenze si sia mantenuto integro e abbia fortemente connotato la cultura tradizionale messinese almeno fino alla dominazione spagnola, la quale veicolò nuovi e non meno interessanti modelli culturali.

Per certi versi il passaggio dalla dominazione araba a quella normanna portò con sé un indubbio mutamento di prospettive culturali, la cui traiettoria acculturativa può essere emblematicamente indicata nel cambiamento intervenuto nella novellistica popolare: dalla figura di Giufà, eroe orientale dai tratti vagamente tricksterici, a quella di Re Artù, dall’impronta marcatamente solare. Giufà, il furbo sciocco delle novelle popolari siciliane, è il detentore di un sapere basato sulla scaltrezza, sulla capacità di riscrivere la sintassi del mondo attingendo alla fertile ambiguità della metafora; Artù è l’esponente di un universo serio, per nulla rabelaisiano, in cui la preminenza rimane per sempre accordata alla conoscenza, ancorché sapienziale, dell’unica grammatica possibile attraverso la quale conoscere e decrittare il reale: quella dell’ordine, del rito e del potere.

La Fata Morgana, della cui attività non rimane notizia alcuna, ha finito invece col radicarsi profondamente nell’area dello stretto contrassegnando un fenomeno ottico di rifrazione allucinatoria il cui effetto fantasmagorico venne spacciato per atto di incantagione dagli antichi, a onta delle dotte spiegazioni che poi ne rese il poligrafo gesuita Athanasius Kircher.

Persino la figura di Riccardo Cuor di Leone ha finito col mescolarsi inestricabilmente con la storia di Messina, ma anche con la sua leggenda, se è vero, secondo quanto ipotizza l’erudito Domenico Puzzolo Sigillo, che proprio dalla permanenza del Re Plantageneto nella città dello stretto prese origine quello straordinario complesso mitico-rituale della Vara e dei Giganti che ancora costituisce per Messina un orizzonte cerimoniale, nonché esistenziale, di tutto rispetto. D’altra parte, un excursus esaustivo delle figure che entrano in gioco nella genealogia di Messina posta in essere fin dai tempi più antichi e poi incrementata e arricchita in epoca rinascimentale nella prospettiva di una sempre più pregnante sacralizzazione del sito, non potrebbe sottacere il ricco e articolato pantheon composto da Cam, Zanclo, Saturno, Messano, e Rea, Cibele, Demetra, Messe come articolazioni mitopoietiche di coppie archetipiche di progenitori-fondatori, o anche da figure come quella del gigante Peloro o del dio Giano (poi santo sotto il nome di Gennaro) documentanti per un verso lo straordinario impasto mitologico storicamente determinatosi in questo lembo di Mediterraneo, per altro verso le singolari dinamiche attraverso le quali la sopravvivenza degli antichi dei assunse a Messina una precipua caratteristica di rifondazione territoriale e misterica della città.   

È giunto il momento di rendere conto del perché di una tale enumerazione di miti, figure sacrali, personaggi storici e leggendari che hanno, in un amplissimo arco temporale, fatto parte dell’orizzonte mitologico, storico e letterario della città. Io credo che si renda oggi opportuna e necessaria la istituzione a Messina di quello che definisco un Museo del Genius Loci, ove si possano raccogliere e conservare tutti i documenti, di varia natura, relativi alle origini, alla storia, alla cultura dell’area dello stretto visto come straordinario coagulo di elementi che provengono dalle scienze naturali e naturalistiche, dalle discipline antiquariali e archeologiche, dall’urbanistica, dalla storia dell’arte, dall’antropologia, dalla varia e articolata attività fabulatoria esercitatasi negli ultimi duemilacinquecento anni intorno a tale sito. 

La zona di Capo Peloro (o anche, in alternativa, uno dei suoi immediati dintorni, come l’area dell’ex Istituto Marino) bene si presterebbe a ospitare una siffatta struttura, attesa la sua natura di luogo – reale e simbolico – di snodo e di riplasmazione di tutte le traiettorie culturali che si sono storicamente dispiegate nell’area dello Stretto negli ultimi diecimila anni. Beni naturali e naturalistici (mineralogia, flora e fauna), testimonianze di attività lavorative e produttive di rilevante interesse etno-antropologico oggi dismesse o mortificate da un perverso assetto territoriale (cantieristica navale, mastri d’ascia, ciclo del vino, molluschicultura), memorie e suggestioni mitologiche e letterarie (da Omero a Horcynus Orca), tradizioni marinare, emergenze archeologiche, storiche, architettoniche, oceanografiche, paesaggistiche: ecco in breve l’articolato palinsesto culturale e ambientale che rende questo angolo di mondo un unicum di cui occorre garantire la tutela e la persistenza contro ogni possibile iniziativa che miri allo stravolgimento della sua storica  configurazione.

La querelle sulla maggiore o minore fattibilità del ponte sullo Stretto non si è mai misurata (e anzi ne ha sempre prescisso) con tale ovvia considerazione: il bene culturale è stato assai spesso investigato nella sua matericità, nel suo essere oggetto; ma bene culturale è anche una determinata particolarità o attitudine dell’oggetto a rapportarsi al contesto che lo ha storicamente prodotto e al complessivo sistema che tiene insieme le cose, le parole e i segni. Ne consegue che la perdita della memoria e dell’identità che storicamente si sono costruite intorno a una determinata realtà territoriale e comunitaria, non può in alcun modo essere quantificata attraverso un mero calcolo contabile “di ciò che rimane e di ciò che viene sacrificato”. Il danno di una grande opera come quella del ponte sarebbe totale e irreversibile per la memoria millenaria di questo sito.

Sono convinto che la proposta di creazione di un Museo del Genius Loci, da utilizzare come strategia di conoscenza e mobilitazione rivolta ai cittadini messinesi di qualunque livello culturale e di qualunque fascia generazionale,  che sia al contempo, per così dire, una proposta di educazione all’identità, oltre a rafforzare l’auspicio che Capo Peloro e l’intera area dello Stretto vengano inseriti nella loro attuale configurazione nel novero dei beni patrimonio dell’Umanità, avrebbe anche il merito di fornire a quanti non si siano ancora rassegnati alla opacità che oggi contraddistingue la città di Messina un quadro di riferimento alto, non banale, utile in definitiva a stimolare la pratica della memoria e il gusto dell’utopia.

 

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