di Claudio Staiti

C’era una volta la California. Natura bellissima, clima multiculturale, enormi opportunità, inarrestabile voglia di crescita, progresso e sviluppo. Negli ultimi tempi – e lo ha segnalato in modo esemplare il libro California (Mondadori, 2022) del giornalista (catanese) e vicedirettore de “Il Post” Francesco Costa – il “mito” dello Stato perfetto è in caduta libera: enormi disuguaglianze, costo della vita praticamente proibitivo, crisi finanziarie, fallimento di importanti banche della Silicon Valley, un’emergenza abitativa e sociale che non sembra trovare una via d’uscita e che spinge migliaia di senzatetto per strada. Ciononostante, le sue università sono ancora ai vertici nelle classifiche nazionali e mondiali, “isole felici” all’interno di un contesto che sembra andare a rotoli, da ogni punto di vista. Tra i professionisti della ricerca e dell’educazione ci sono diversi italiani che, insieme a lavoratori della ristorazione (chef, camerieri) o coloro i quali lavorano nei settori dell’industria hi-tech o del cinema, costituiscono il capitolo più recente (e ancora tutto da studiare) della storia dell’emigrazione italiana in California, partita nella seconda metà dell’800 con la “corsa all’oro” e con l’arrivo (soprattutto dal nord Italia) di emigranti che avrebbero fatto la fortuna propria e di quel luogo nei settori della pesca e della coltivazione della vite. Quella degli italiani che scelgono di affermarsi negli Stati Uniti non è certo una novità, ma da alcuni anni assistiamo a una nuova fase, spesso scarsamente considerata dalla politica di casa nostra e anche dai dibattiti culturali. Una nuova pagina di quella che gli studiosi del settore chiamano la “diaspora” italiana. Una questione che riguarda non solo l’identità degli italiani trasferitisi quindici, venti anni fa negli Stati Uniti, ma anche dei loro figli che sono sì italoamericani, ma in modo molto diverso da quegli italoamericani eredi della “grande emigrazione” di primo Novecento.

 

 

Alberto Salleo, originario della provincia di Messina (di Sinagra dal lato della famiglia paterna; il padre, Ferdinando, è stato diplomatico per molti anni, servendo come ambasciatore italiano in Russia e negli Stati Uniti) mantiene tuttora un legame con la nostra terra dove si reca ogni estate. Entrati nel suo studio all’Università di Stanford, a circa sessanta chilometri a sud di San Francisco e adiacente alla città di Palo Alto, ci tiene subito a mostrarci un dipinto che il nonno realizzò nel 1954 e che espone con orgoglio per ricordarsi sempre da dove viene. Nato a Praga per via del lavoro del padre, dopo gli studi un po’ in giro per l’Europa, si è laureato in Chimica alla Sapienza di Roma. Da lì una lunga e ricca carriera che lo ha portato ad arrivare a essere chair (l’equivalente del nostro direttore) del dipartimento di Scienze dei materiali di una delle università più note ed eccellenti degli Stati Uniti e non solo. Il campo di ricerca principale è l’uso di polimeri (materiali plastici) per elettronica. Una delle ultime “scoperte” del suo gruppo è la realizzazione di un dispositivo che emula le sinapsi del cervello. Vincitore di una borsa Fulbright spesa a Berkeley, nel dipartimento di Scienza dei materiali, è poi rimasto lì per svolgere il dottorato. Era il 1995. Dalla California non si è più mosso. «Non sono partito dicendo “per me in Italia non c’è posto”, ma solo per vivere questa avventura. Non era una cosa pianificata. Ma ogni volta mi dicevo “rimango un po’ di più”. Al tempo si studiavano argomenti che mi interessavano e ho svolto la mia ricerca al laboratorio Lawrence Livermore (quello nato per sviluppare la bomba a idrogeno). Dal 2001 al 2005 ho lavorato presso lo Xerox Park di Palo Alto, laboratorio famoso per essere uno degli epicentri dell’innovazione nella Silicon Valley, noto perché si progettava “l’ufficio del futuro”: qui sono stati inventati la stampante laser, la rete Ethernet, il sistema operativo a icone, il perfezionamento del mouse. Ho lavorato nel campo dei semiconduttori di plastica per fare elettronica stampata».

 

 

E poi è arrivata Stanford. «Ciò che mi colpì sin da subito è che qui tutto ha un aspetto molto pratico, allo studente viene insegnato a usare anche lo strumento più sofisticato». Nonostante questo campus resti uno dei luoghi più attrattivi, di italiani se ne vedono pochi: spaventa la durata del dottorato (qui dura cinque anni e non tre) e gli alti costi di vita. Membro del board della Italian Scientists & Scholars in North America Foundation (ISSNAF), una no profit che raccoglie 4.000 ricercatori italiani che studiano o lavorano in Nord America, ci tiene a lanciare un appello: «Uno dei nostri obiettivi è aiutare tutte le università italiane a internazionalizzarsi ancora di più: portare italiani qui (che poi tornino in Italia) e fare venire americani lì. Mi rivolgo soprattutto alle università medie e piccole che in genere sono più scoperte su questo fronte e hanno meno risorse interne: in questo senso anche l’ateneo di Messina può giocare la sua partita». Salleo si sente un po’ parte del “sogno americano” che, ci dice, ancora esiste ma sempre per meno persone. «L’università non funziona più come ascensore sociale, in California il costo di accesso agli studi rende ciò sempre più difficile. Ma ci sono comunque casi positivi: un mio studente da piccolo viveva per strada e ora è riuscito a laurearsi. Tornare in Italia? Mai dire mai. Non so lì, ma qui gli accademici sono sotto pressione, visti con sospetto da una società sempre più incattivita che non li riconosce più come figure guida ma li vede come parte di un establishment da abbattere. Ciò per fortuna mi tocca di meno perché ancora la maggior parte della popolazione continua a pensare quanto sia comodo e bello avere un telefono di ultima generazione, ma è vero che dobbiamo interrogarci se come università abbiamo fallito nella comunicazione quando sentiamo il diffondersi di tesi complottistiche senza alcuna evidenza». Prima di lasciare il suo ufficio, un ultimo sguardo al dipinto del nonno: «la mia famiglia (moglie australiana e due figlie ndr) viene sempre molto volentieri, amano l’aspetto rilassante della campagna o del mare. Alcuni amici per le vacanze vanno da altre parti, io invece ho sempre voluto tornare nella casa di famiglia».

 

 

A trenta chilometri da Stanford, alla Santa Clara University, la più antica istituzione universitaria californiana ancora in attività (fu fondata nel 1851 da Gesuiti italiani), incontriamo Evelyn Ferraro, Assistant Professor in Italian Studies. Nata a Messina ma cresciuta a S. Angelo di Brolo, dove torna ogni anno per le vacanze estive, Ferraro è molto legata alla terra dove ha trascorso la sua infanzia e prima giovinezza. Il capoluogo lo ricorda soprattutto per tre motivi: le corse in ospedale per qualche emergenza, la visita agli amici più grandi che si erano trasferiti “in città” per studiare all’università e per quella cugina che lavorava all’ospedale psichiatrico a Messina e che le diceva sorridendo: «i veri pacci non sono qui, ma fuori». Ha poi studiato Lingue a Palermo e Traduzione e Letterature Comparate in Inghilterra. «Nel frattempo, avevano bandito dei concorsi per la scuola. Venendo dalla Sicilia, sai com’è, non si può non fare il concorso! Avevo dunque il “posto fisso” che mi aspettava in una scuola elementare di Borgo Vecchio a Palermo, ma ho deciso di provare a cercare di lavorare negli Stati Uniti. Mi affascinava la tematica della migrazione, avevo voglia di conoscere di più». «Sono andata a Pittsburgh per il mio master e mi hanno subito messo a insegnare italiano, è stato uno degli anni più difficili, devo ammettere. Dopo ho proseguito con il dottorato in Italian Studies alla Brown University dove ho svolto la tesi sulla scrittura della diaspora italiana. In particolare, durante un periodo di studio a Stanford come Exchange Scholar, mi sono interessata ai lavori di una rifugiata ebrea italiana a Berkeley, Ebe Cagli Seidenberg». Gli anni seguenti sono stati “duri”, hanno coinciso con la crisi del 2008-2010, e per lei hanno significato anche un anno di “non occupazione” accademica. «Però dovevo mantenermi attiva, pubblicando, studiando, e ho svolto lavori saltuari come lezioni private e online. Per diversi mesi sono stata anche ospite di amici, a cui sarò eternamente grata. Questo mi ha insegnato il valore del fallimento e del cambiamento e ho capito che non sempre le strade sono linee rette. Basti pensare che ho cambiato diciotto indirizzi in vent’anni». Arrivata a Santa Clara nel 2013 come Adjunct Lecturer, nel 2018 è diventata Assistant Professor e, se tutto va bene, il percorso si concluderà presto con l’incarico di Associate Professor. Nel frattempo, il suo lavoro le ha valso, nel 2020, il Leonardo Award for Humanities, premio attribuitole dalla già citata ISSNAF e dalla Leonardo da Vinci Society di San Francisco. «La nostra Italianistica non è quella tradizionale, essendo nella Silicon Valley l’innovazione passa anche da lì. Abbiamo aggiunto numerosi corsi, come quello di “italiano per ingegneri” o i corsi-stage o quelli per studenti che già conoscono lo spagnolo. Personalmente, porto avanti anche un corso che riguarda l’esperienza culturale italoamericana. Siamo fortunati anche perché siamo, a tutti gli effetti, ambasciatori culturali dell’Italia e forse la cosa più difficile ma stimolante è cercare di presentare lingua, storia e cultura italiane nel modo più aggiornato possibile, dato che spesso si ha una visione stereotipata del nostro Paese». In questo la California aiuta: «La sua bellezza paesaggistica, spesso associata alla mediterraneità, per certi versi mi ricorda la Sicilia, anche per la sua diversità culturale». E l’Isola torna nei suoi corsi, con l’utilizzo della storia della Sicilia araba, ma anche della letteratura di Pirandello, Maria Messina, Camilleri o degli studi di Pitrè. Ma, fuori da tutto ciò che potrebbe sembrare un doveroso cliché, la Sicilia viene fuori anche nei corsi che riguardano l’immigrazione in Italia, «un’area di studio che si presta particolarmente all’esplorazione di tematiche di giustizia sociale che la Santa Clara University promuove, come dimostrano anche i tanti eventi culturali che il programma di Italian Studies ospita». Non a caso, nel 2024, Ferraro è diventata Faculty Director (Direttrice accademica) di una comunità di oltre 300 studenti che si distingue per i temi dell’impegno civile. Tuttavia, la studiosa si dice rammaricata del fatto che non ci siano forti contatti con università a sud di Roma: «le collaborazioni con docenti di lingua, di mediazione culturale e di storia di atenei del Sud sarebbero benvenute, ma sono consapevole che, anche con la loro buona volontà, se non si strutturano dei programmi in tal senso, non si può fare molto». Sarebbe però utile fare entrare “la Sicilia reale in America” attraverso scambi mirati. «La ricerca per me ha senso se ha una proiezione nell’oggi e nel futuro». La salutiamo non prima di chiederle nell’ambito della lunga storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti lei dove si colloca. Non ci pensa due volte e ci risponde: «Ancora in viaggio».

 

 

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