In questi giorni di ritiro forzato nelle nostre case abbiamo capito l’importanza delle strade, ne abbiamo avuto languore e desiderio, in alcuni casi ne abbiamo contemplato la bellezza o anche la sciattezza attraverso le nostre finestre e i nostri balconi, abbiamo visto selciati liberati dalle auto e dagli oggetti e nella straniante situazione abbiamo assaporato colori e materie. Stiamo tornano alla città di prima bella e brutta insieme, riprendono i primi cantieri di rifacimento stradale e tornano le colate di asfalto.

 

 

 

Quando si scarificano dall’asfalto le vie centrali della città emergono “antiche pietre”: basole di pietra lavica, canali di smaltimento e cigli in basalto. In un lampo immaginifico desidero farmi “archeologo”, poi questo desiderio di disseppellire tutte le pietre evapora insieme ai fumi caldi dell’asfalto steso in strada. Mi sono chiesto se questo desiderio di disseppellire le vecchie strade pavimentate, non mi portasse a un’irreversibile transizione verso una senilità nostalgica del com’era e dov’era. A mente fredda direi che l’unica nostalgia che mi prende è quella della perduta qualità urbana e della materia come generatrice di plusvalore estetico. La reiterata azione di distruzione delle qualità fisiche della nostra città è cominciata quando ero bambino sul finire degli anni sessanta, portata avanti fino a oggi mi rende anagraficamente misura del disastro e dell’inerzia. Per evitare qualsiasi languore sentimentale e intellettuale vorrei farne un ragionamento materiale constatando che nessun cittadino razionale (e/o tecnico/politico/funzionario/amministratore) assisterebbe alla continuativa dissipazione di un patrimonio estetico, economico e materiale rappresentato nella grande dimensione dalla forma sfigurata della città e nella piccola dimensione anche dalla cancellazione delle preziose pietre laviche inghiottite dal “povero” e indifferente asfalto. Una dissipazione del patrimonio materico delle urbanizzazioni giunte a noi dal piano di ricostruzione di Borzi; cominciate con le fasi di costruzione del sistema idraulico fognario (1916-1923), e poi con le successive fasi di definizione dei suoli stradali e dei marciapiedi delle principali arterie stradali (1923-1933), ricordiamo che alla data del 1932 Pietro Longo nel libro Messina città rediviva rendiconta così lo stato delle cose: “…le strade realizzate in basole di pietra lavica sono mq 554.000; le strade con asfalto comune mq 113.000, strade con rivestimento tipo Macadam con bitume pressato mq.217.00; sviluppo di strade alberate ml 20.500; ed infine sistemazioni a giardino mq 16.600…” Una dissipazione quantitativa ma anche qualitativa del patrimonio di conoscenze tecniche applicate al decoro e agli elementi infrastrutturali della città, delle capacità e delle abilità dei mestieri manuali. Una dissipazione della relazione fra buona costruzione e bella costruzione, fra utilitas e venustas, della cultura materiale ed estetica della citta in relazione al territorio alle sue componenti naturali.

Cosa faremmo se venissimo a conoscenza di qualcuno che dissipa senza motivo il proprio patrimonio? Probabilmente non gli affideremmo mai le nostre proprietà; nella città invece lo facciamo, per indifferenza, inerzia o per ingenuità. La città ha conosciuto attraverso il piano Borzì del 1910 un’avventura costruttiva con cui ha reagito alla distruzione del Terremoto. Attraverso progetti, forme e norme di costruzione, Messina ha assunto dei caratteri formali e si è definita come figura urbana chiara. La materia con cui si lastricavano le strade e di definivano i marciapiedi erano le basole di pietra lavica o in alcuni casi le pietre bianche di Lazzaro sui marciapiedi di via Garibaldi, i muri delle scarpate e quelli delle risalite delle scalinate venivano costruiti con le pietre a spacco variegate e bordate da blocchi di pietra basaltica. Si costruì una sorta di filo materico discorsivo, variabile ma unitario per la ri-comprensione delle variegate espressioni linguistiche delle architetture eclettiche e ibride, a queste indicazioni a volte anche elementari pochissime successive innovazioni di ricerca o di rielaborazione dell’effetto città: anzi a volte solo una semplice coltre di asfalto.