MESSINA. Da qualche settimana, imperversa in Sicilia (in tutta Italia, a dire il vero) il dibattito sul deposito che dovrà contenere le scorie nucleari di tutta Italia (qui tutto quello che c’è da sapere). Da ambientalisti ad associazioni, fino a politici (compreso il presidente della regione Siciliana Nello Musumeci), si sono scagliati contro l’ipotesi che i siti in lizza per l’isola (Trapani, Calatafimi-Segesta, Castellana Sicula, Petralia Sottana, Butera.) possano effettivamente ospitare il sito di stoccaggio. Per questo, fino alla fine di febbraio, sarà attiva la consultazione nazionale per proporre dubbi, perplessità, alternative.

Nel frattempo, è bene capirci qualcosa. A fare chiarezza ci hanno pensato una ingegnere nucleare specializzata in gestione dei rifiuti nucleari, Giulia Randazzo, e un docente di geologia ambientale dell’università di Messina, Giovanni Randazzo. Di seguito, un contributo dei due studiosi, che pubblichiamo integralmente.

“Nel corso degli ultimi giorni si è scatenato un dibattito “surreale” relativo alla ventilata possibilità di ubicare in Sicilia il deposito nazionale per lo stoccaggio di rifiuti nucleari. “Surreale” perché basato su molto poco se non sul nulla e, soprattutto, perché i referenti istituzionalmente più sorpresi e indignati sono quelli che dovevano essere a conoscenza dei criteri di selezione dei siti dal 2014, criteri sulla base dei quali era evidente che alcuni siti del centro della Sicilia potenzialmente sarebbero stati considerati.

L’oggetto del dibattimento è l’ubicazione dell’unico Deposito Nazionale previsto per lo smaltito dei rifiuti nucleari ad attività bassa e molto bassa (è previsto almeno un sito per ogni nazione; infatti le nazioni che hanno piani nucleari per la produzione d’energia, come per esempio la Francia, ne hanno più d’uno e soprattutto destinati anche a rifiuti ad alta attività), cioè quelli che nell’arco di 300 anni raggiungeranno un livello di radioattività tale da non rappresentare più un rischio per l’uomo e per l’ambiente. Si tratta di rifiuti nucleari prodotti dagli ospedali, dall’industria e dalla combustione fissile che in Italia è stata vietata con i referendum del 1987 e del 2011, quindi quest’ultima una produzione non attiva da più di 30 anni, periodo durante il quale i materiali radioattivi, provenienti dal decommissioning delle centrali di Trino (Vercelli), di Caorso (Piacenza), di Latina e di Sessa Aurunca (provincia di Caserta), sono stati allocati in Francia e in Gran Bretagna.

Il percorso di selezione del sito, però, non ha nulla di “nucleare” infatti, dei 15 criteri escludenti, 10 sono geologici, mentre gli altri 5, di tipo geografico, riguardano rispettivamente distanze di sicurezza da siti di interesse naturale, centri urbani, strade, risorse del sottosuolo, aree industriali e dighe. Escluse le aree che non hanno tali requisiti, si procede con un’analisi sulla base di 13 criteri di sapprofondimento. Tra questi, 9 sono di approfondimento geografico – geologico in senso lato, comprendendo la composizione dei terreni e le caratteristiche climatiche, mentre gli altri 4 riguardano la presenza di habitat di particolare pregio e geositi, la presenza di produzioni agricole che sono associate ai siti archeologici e di strutture strategiche, nonché la disponibilità di infrastrutture di comunicazione.

Sono tutti criteri oggettivi, facilmente incrociabili sul territorio e che quindi gli organi preposti avrebbero dovuto e potuto valutare preventivamente, piuttosto che sorprendersi a comunicazione avvenuta.

E’ utile comunque osservare che, questo sistema di individuazione dei siti è lo stesso che la Regione Siciliana avrebbe dovuto utilizzare per pianificare l’ubicazione degli impianti necessari allo smaltimento dei rifiuti (termovalorizzatori, gli impianti di biometano/compostaggio e le discariche temporanee) oppure per definire un piano cave ambientalmente compatibile e non redatto sulla mera accettazione dell’esistente.

Comunque, molto rumore per nulla, in quanto i quattro siti individuati in Sicilia, rispettivamente nei comuni di Trapani e Calatafimi – Segesta nel trapanese, di Castellana Sicula – Petralia Sottana nel palermitano e di Butera in Provincia di Caltanissetta, non sono stati valutati favorevolmente, rispetto al contesto nazionale. Per questa ragione tre sono stati relegati in ultima classe, come ricadenti in zone comunque sismiche, mentre il sito di Butera, rientra nella penultima classe soltanto per le condizioni geograficamente insulari.

La classifica prevede due classi di siti “buoni” e “molto buoni” (A1 e A2), una di siti insulari (classe B) e una di “aree in zona sismica 2” (classe C). In base ai criteri suddetti, in classe A1 rientrano diversi siti piemontesi (in provincia di Alessandria e di Torino) e laziali (in provincia di Viterbo, aree dove erano state allocate le centrali smantellate) che, oltre a rientrare nella classe “molto buoni”, sono certamente più baricentrici rispetto ai siti individuati nelle regioni meridionali, considerando la provenienza della maggior parte dei rifiuti attualmente prodotti in Italia.

Infatti, a svantaggio della Sicilia, bisogna considerare che la maggior parte della produzione nucleare è concentrata nel centro – nord e qualsiasi valutazione terrà in grandissima attenzione la minimizzazione degli spostamenti, che di fatto rappresenta il più importante elemento di criticità del processo di smaltimento. Certo se ci fosse stato il Ponte la possibilità di risalire nella classifica sarebbe stata ben maggiore o magari la sua realizzazione si sarebbe potuta utilizzare per rilanciarne l’indispensabile funzionalità allo sviluppo dell’Isola.

Però, al di là dei sonni tranquilli che possono dormire i politici siciliani, per le ragioni di cui sopra, la netta opposizione alla realizzazione del Deposito Nazionale, significa perdere un investimento di poco meno di un miliardo che avrebbe potuto fornire un’occupazione diretta a 100-150 unità di personale e un indotto di dieci volte superiore, non contando che tale scelta avrebbe potuto portare alla realizzazione di un centro di ricerca internazionale sul nucleare e all’accelerazione della realizzazione delle infrastrutture di comunicazione. Si pensi per esempio alla sinergia scientifica che si sarebbe potuta sviluppare con il centro di Erice o con l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) con sede a Catania e collaborazioni con tutte le Università Siciliane.

Dal punto di vista ambientale è, inoltre, opportuno puntualizzare che questi grandi impianti industriali, come i depositi nucleari, ma come peraltro anche i termovalorizzatori, hanno un impatto sul territorio praticamente nullo. Si pensi per esempio che i due siti francesi più importanti sono nel dipartimento dell’Aube (a 30 km di distanza, per valorizzarne meglio la sinergia), che appartiene di diritto a uno dei territori di produzione dello champagne, senza che la radioattività interferisca con la salute pubblica o con le bollicine e con tutta la filiera ad essa connessa.

Ma probabilmente è vero che, con questa presa di posizione bipartisan, la politica siciliana, nel suo complesso, non essendo stata capace di gestire i rifiuti ordinari, non ritiene di potersi avventurare nella gestione di un Deposito Nazionale per scorie nucleari ad attività bassa e molto bassa, preferendo così non attivare un fenomenale moltiplicatore di occasioni economiche e di sviluppo. La Regione Siciliana, nella speranza di poter utilizzare i finanziamenti che le conseguenze di questa maledetta pandemia renderanno disponibili, dovrebbe dotarsi di piani di sviluppo realmente aperti agli investimenti e allo sfruttamento di tutte le possibili sinergie, operando per la risoluzione dei problemi endemici dell’Isola, invece di limitarsi ad attivare politiche di negazione, pensando che il semplice essere depositari di straordinari valori naturalistici, culturali e archeologici possa sfamare l’Isola e arrestarne lo spopolamento soprattutto di soggetti ad alto tasso di formazione.

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