MESSINA. Nella serata di venerdì scorso, 7 giugno 2024, la Multisala Apollo di Messina ha ospitato il regista romano Carlo Sironi, per la presentazione del suo “Quell’estate con Irène.”
Dopo la vittoria all’European Film Awards del 2020 come miglior rivelazione per il suo esordio con “Sole”, Sironi torna nelle sale con un’opera seconda che tratta di amicizia, malattie, esperienze e ricordi d’adolescenza che uniscono dettagli chiarissimi e immagini confuse, “come in un sogno ad occhi aperti”.
“Quell’estate con Irène” è la storia di due giovani ragazze che hanno dovuto affrontare un tumore e hanno un disperato bisogno di vivere una vacanza da normali adolescenti. Per la descrizione ufficiale, Clara e Irène sono “timida e solitaria l’una, sfacciata e inarrestabile l’altra, in comune hanno soltanto i loro 17 anni e quella malattia che sembrava sconfitta ma è ancora un’ombra presente nelle loro vite. Eppure quando sono insieme la paura svanisce e bastano poche ore a renderle inseparabili. Al punto di decidere di scappare insieme su un’isola lontana da tutti dove poter finalmente vivere la loro prima vera estate.”
L’isola in questione è Favignana, scelta dal regista per i contrasti tra luci e ombre delle cave e per i ricordi che ne conservava. La Sicilia fa quindi da sfondo alle scene immaginate da Sironi sin dal 2020.
In occasione della presentazione di venerdì, Sironi ha risposto alle domande sul film, svelandone ispirazioni, dinamiche e setimenti.
L’intervista
Come e perché è nato questo film? Ha dichiarato che la canzone dei Cure “To Wish Impossible Things” ha avuto un ruolo decisivo. Che impatto ha la musica nel suo processo creativo?
Questo film è nato in maniera bizzarra. Anche mentre lavoravo al mio primo film, “Sole”, è stato ascoltando musica che ho capito che poteva prendere una piega diversa. Ma in quel caso ero già concentrato sul film. In questo caso, invece, stavo proprio pensando ad altro.
È stata la prima volta che la musica mi ha suggerito delle vere e proprie immagini e contenuti senza che io li stessi cercando. Vere e proprie scene per tutta la durata della canzone. Così mi appuntai le prime pagine di soggetto. Questo avveniva prima di girare il mio primo film “Sole”, perciò ho finito il percorso di distribuzione di “Sole” ho ripreso il soggetto e ho cominciato a lavorarci. Nel farlo ho riconosciuto che c’erano anche cose che avevano a che fare con i miei ricordi, in particolare il ricordo di due ragazze mie amiche durante gli anni del liceo, che erano molto legate e avevano un’amicizia particolare, solenne e forte.
Con Silvana Tamma, con cui ho scritto il film, volevamo restituire le sensazioni tipiche della memoria dell’adolescenza, tra ricordi nitidi e precisi e ricordi annebbiati. Per questo il film non ha un tono precisamente realistico, è come filtrato dall’idea dei ricordi. D’altra parte volevamo raccontare un po’ l’estate che è un po’ la stagione alternativa per eccellenza.
È una trama che prende il via da una condizione che è quella della malattia. Come ci si approccia a un tema così delicato?
Era un mondo di cui conoscevo solo delle nozioni. Quello che abbiamo fatto è stato rivolgerci ad un’associazione, l’A.G.O.P.
Ci è stata utilissima sia per la ricerca medica, che perché ci ha permesso di intervistare ragazze e ragazzi dell’età delle protagoniste che hanno fatto dei percorsi simili. Nel momento in cui abbiamo intervistato loro abbiamo capito che c’era una fase della malattia che era molto interessante, quando non sei ancora considerato guarito ma ormai le terapie sono lontane. Anche il camp estivo in cui inizia il film è ispirato al campo tenuto dall’AGOP. È stato fondamentale relazionarci con loro. Non volevamo utilizzare la malattia come motore drammaturgico ma rimanere delicati.
Questa è la storia di un’amicizia forte e sviluppata in poco tempo. Quanto incide la malattia su questo e quanto invece l’età o semplicemente l’affinità tra le due protagoniste?
Come ci hanno raccontato molti ragazzi e ragazze, da un lato la malattia in comune permetteva di non parlarne. D’altra parte è un’età in cui scegliamo e ci avviciniamo alle persone senza una ragione precisa, senza un motivo o dei requisiti.
Loro si conoscono e si scelgono dall’inizio, senza neanche sapere perché.
In questo film ha lavorato con due attrici molto giovani, la francese Noée Abita e Maria Camilla Brandenburg che è al suo esordio al cinema. Com’è stato lavorare con loro?
Molto facile e molto divertente. Noée è un’attrice professionista con alle spalle almeno una quindicina di film. In Francia è considerata una giovane star. Nel momento in cui ho capito che lei aveva il tempo di imparare l’italiano e di farlo bene, i problemi erano alle spalle. Aveva una coatch italo-francese e ovviamente recita la parte di una ragazza francese.
Abita è un cognome della zona del trapanese, suo nonno è un siciliano emigrato in Provenza, ma lei non aveva mai parlato italiano prima.
Tra le due ragazze c’è stata chimica sin dal primo incontro. Ho cercato di dare loro più spazio possibile per fare le loro proposte sui personaggi e sul modo in cui si affrontavano le cose in modo da poterle scrivere, dato che Noée non poteva improvvisare.
Il suo è un cinema sull’esperienza e sulla spontaneità della vita quotidiana. Quanto è difficile raccontare la potenza dei sentimenti attraverso le cose più semplici che fanno parte della vita ma magari spesso non notiamo abbastanza?
Credo siamo abituati a non notarli perché sia al cinema che con tutti gli stimoli esterni che riceviamo, non solo dal telefono, siamo abituati ad avere una sorta di perenne sottotitolo che ci spiega cosa sta succedendo. Prima, per secoli, siamo stati abituati che le storie replicavano la vita e si usavano gli strumenti della vita per capirle. Per me è abbastanza semplice ed è necessario.