So bene che viviamo giorni bui, giorni tristi, e che dovremmo volgere la nostra attenzione verso i drammi comunitari piuttosto che in direzione di quelli privati. È però indubbio che questa strana e struggente segregazione ci rende tutti più fragili, e consapevoli come forse mai prima di adesso dei motivi di verità contenuti nella poesia di John Donne:

No man is an island entire of itself; every man

is a piece of the continent, a part of the main;

if a clod be washed away by the sea, Europe

is the less, as well as if a promontory were, as

well as any manner of thy friends or of thine

own were; any man’s death diminishes me,

because I am involved in mankind.

And therefore never send to know for whom

the bell tolls; it tolls for thee.

Nessun uomo è un’isola. Ognuno di noi altro non è che l’escrescenza emersa di quel continente sotterraneo che tutti ci tiene uniti. Sentimento questo che dovrebbe valere in relazione a ogni individuo che popola il pianeta, quale che ne sia la razza, il credo religioso, l’orientamento sessuale e qualunque specificità derivante dalla sua cultura egli esibisca.

Non siamo però dei santi, e come genere umano ci scopriamo piuttosto propensi a erigere barriere più o meno permeabili tra noi e chi da noi diverge. Nessuna meraviglia di ciò, nessun abbandono alla disperazione. Per nostra fortuna abbiamo un Dio assai paziente e misericordioso.

La morte di un amico però costituisce veramente un rintocco di campana che ci suona vicino, un vuoto che ci avvolge e ci lascia impoveriti, consapevoli come siamo che la nostra esistenza non sarà più la stessa, che pezzi di storia e di memorie condivise, di risate, lampi agli occhi e nutrimenti reciproci saranno d’ora in avanti legati alla nostra capacità di ricordare, di mantenere viva la fiamma di un rapporto che è stato e adesso non c’è più, se non nel duro lavorìo del cordoglio e nella triste quotidiana strategia di recuperare la persona cara nel valore delle sue opere, oltrepassando l’oltraggio dell’assenza fisica. Per chi come me cristiano, anche la speranza di potersi un giorno ritrovare…..

Mi è morto pochi giorni fa un caro amico. Una persona a suo modo speciale. Ugo Maccà, veneto per nascita e residenza ma siciliano e mistrettese per passione e lucida scelta, era approdato nella nostra isola alla fine degli anni settanta.

Insegnante e al contempo uomo dai mille interessi, Ugo è stato un fotografo raffinato, un amatore evoluto in grado di surclassare gran parte dei professionisti della fotografia. I suoi strumenti di lettura e decriptazione della realtà erano l’occhio, la luce, la sua Hasselblad e la scelta mai tradita del bianco e nero. A questi Ugo ne aggiungeva due che finivano per costituire la cifra peculiare della sua poetica: l’ironia e la lentezza. Ricordo ancora con commozione con quanta precisione e studio egli si accingesse alla realizzazione di un ritratto. Non era mai contento della luce, dei tempi di esposizione, dell’apertura di diaframma, del contesto esterno al quadro, e provava e riprovava fintanto che non avesse raggiunto l’equilibrio perfetto che aveva in mente.

Con tutto ciò, niente era più lontano da lui della frenesia di molti fotografi, Pareva che per lui il tempo non avesse alcun valore, e rientrava nella sua norma lavorare due o tre ore per produrre un’immagine che fosse rispondente a quella desiderata.

Ho conosciuto Ugo Maccà a Mistretta negli anni novanta. Mi colpì subito la sua immagine fisica. Altissimo e magro, di un’eleganza da dandy esibita con disinvoltura e un pizzico di ironia anche a cospetto dei contadini, degli artigiani, dei pastori con cui amava accompagnarsi. Di una cortesia e una forbitezza di linguaggio tali da far pensare a un personaggio letterario uscito da romanzi di D.H. Lawrence o Thomas Mann.

Quando mi fu conferito l’incarico di direzione del Museo Silvo-pastorale di Mistretta, su mia proposta poi intitolato a Giuseppe Cocchiara, Ugo, che ogni anno lasciava le sue plaghe per trascorrere almeno un paio di mesi a Mistretta, divenne un habitué, non passava giorno che non lo ritrovassi presente al museo quasi che quella struttura fosse divenuta per lui una sorta di ufficio.

E così, anno dopo anno, si è venuta consolidando un’amicizia rinsaldatasi nel tempo con la conoscenza delle rispettive famiglie, gite sui Nebrodi, un nostro viaggio a Venezia, scambi di libri e di idee. Affetti crescenti.

Un giorno mi mostrò dei ritratti. Ugo, che aveva già regalato a Mistretta uno splendido libro fotografico, da anni lavorava alla realizzazione di un portfolio siciliano, mettendo insieme ritratti di gente di varia estrazione, dai contadini agli intellettuali, dagli artisti ai nobili. Vincenzo Consolo, Peppuccio Tornatore, Francesco Alliata, Vincenzo e Sebastiano Tusa, Nino Buttitta, Peppino Leone, Antonio Presti, tanto per citarne alcuni.  E concordammo di allestire al Museo Cocchiara una mostra di Ritratti Siciliani, mostra di grande bellezza che incontrò il successo che meritava. La stessa, arricchita da nuovi ritratti e corredata di Catalogo, venne poi riallestita dopo alcuni anni presso il Museo dell’Argilla di Spadafora. E anche a questa Ugo, scendendo dalla sua Marano Vicentino, volle presenziare partecipando all’inaugurazione con la sua figura da uomo d’altri tempi, la sua ritrosia a prendere la parola, la sua ironia abituale.

Lo rivedevo ogni anno, tutte le volte che scendeva in Sicilia sempre accompagnato dal suo fuoristrada e dalla sua bicicletta, trascorrendo con lui ore a parlare di libri e di cose siciliane. Lo seguivo nelle iniziative che di volta in volta suscitava attorno a sé, una mostra a Tusa, una presentazione a Mistretta, viaggi in tutta l’isola per arricchire il suo album di ritratti…..

Adesso se n’è andato. L’avevo accompagnato in stazione dopo le sue dimissioni dall’ospedale Papardo, lo scorso settembre, a seguito di un malore rivelatosi il primo campanello d’allarme di una salute divenuta precaria. Anche durante la degenza non aveva perso le sue qualità, ironia e lentezza, capacità cioè di dispiegare sguardi aperti nella notte triste e asciutti nella notte scura, come canta De Gregori.

Ho avanzato agli amici di Mistretta la proposta che gli venga conferita, post mortem, la cittadinanza onoraria. Riconoscimento meritorio per chi in questo angolo di mondo aveva trovato una seconda patria, ben diversa dalle patrie falsamente identitarie venute in auge dalle sue parti. Come ci ricorda Ernesto de Martino, “ciò che conta non è infatti l’essere anagrafico, che accomuna nella sua indifferenza date di nascita e registrazioni di morti, ma l’essere che è cercato e riconosciuto”.

Ciao Ugo. La terra ti sia lieve.

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments