MESSINA. Da aprile sezionano, studiano e restaurano vecchie pellicole, restituendo alla cittadinanza capolavori cinematografici del cinema muto italiano di inizio Novecento, il cui 80% è stato perduto. Sono i ragazzi della Cineteca dello Stretto, un team tutto made in Messina nato circa un anno fa e che di recente è stato impegnato nel rimettere a nuovo (per quanto possibile) un lungometraggio del 1919 dal titolo “Capelli Biondi” di cui si erano perse le tracce e che verrà presentato in prima visione mondiale stasera, sabato 1 luglio, al cinema Lùmiere di Bologna in occasione della trentasettesima edizione del festival internazionale “Il Cinema Ritrovato”, che si sta svolgendo nella città delle due torri dal 24 giugno.

La pellicola verrà proiettata con l’accompagnamento al piano di Daniele Furlati, a cui precederà un’introduzione di Maurilio Forestieri, responsabile di Cineteca dello Stretto, e di Andrea Meneghelli, responsabile dell’archivio filmico della Cineteca di Bologna, che ha coadiuvato nel restauro offrendo gli spazi del laboratorio “Immagine Ritrovata”.

«Questo ritrovamento è eccezionale – spiegano i ragazzi della Cineteca dello Stretto – Si stima che circa l’80% della produzione filmica del periodo muto italiano sia andata perduta. Il ritrovamento e il recupero di questa pellicola aggiungono un piccolo tassello di storia del cinema del nostro Paese e pongono l’accento sull’importanza della conservazione cinematografica, tema sempre più urgente con l’odierno utilizzo massivo del digitale».

«Il nostro lavoro nasce dalla lungimiranza di un imprenditore, che nell’area dell’Hotel Lanterne Magiche ha rinvenuto centinaia di pellicole – spiega Maurilio Forestieri – Molti avrebbero buttato il materiale trovato, lui invece ha deciso di approfondire con degli studi e oggi, tra le pellicole analizzate, ne abbiamo due di particolare importanza: la prima, “L’Occhio di Shivah”, con cui abbiamo partecipato alla quarantesima edizione del Torino Film Festival con il Museo del Cinema di Torino, e la seconda è proprio “Capelli Biondi”».

«Abbiamo sezionato circa trecento pellicole, il che vuol dire che siamo ad un quarto del totale. Per questo c’è ancora tanto lavoro da fare – continua Forestieri – Ad Ortigia vogliamo creare un luogo di conservazione e di restauro. Questo imprenditore ci ha fornito uno spazio limitrofo all’hotel e l’obiettivo è dare vita ad una commissione fra museo e archivio». Il team, composto tutto da messinesi, opera tra Messina e Ortigia, dove in particolare lavora Maurilio Forestieri insieme a Isabella La Fauci e Angelo Scuderi. Forestieri, inoltre, è anche il referente per le pellicole comunali ritrovate qualche anno fa in un deposito allo Zir e non conservate adeguatamente, poi spostate manualmente in una sala al Palacultura (qui la vicenda). Gli obiettivi principali sono il recupero, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio audiovisivo.

Ma perché “Capelli Biondi” è così importante? «Si è trattato di un restauro complicato – spiega Forestieri – Il lungometraggio, di 57 minuti (quindi un lavoro “serio” realizzato per essere distribuito nelle sale cinematografiche) risale al 1919 e si trova su un supporto di nitrato di cellulosa, il primo materiale utilizzato per la fabbricazione di pellicole cinematografiche. Questo è fortemente infiammabile e, se conservato in ambienti con temperature troppo alte, rischia anche di andare in autocombustione. Il film è composto da quattro “pizze”, delle quali due si sono mantenute in un buono stato, ma le altre due no, in quanto non conservate in maniera appropriata: alcune parti si sono incollate. La prima fase, quindi, è stata il trattamento chimico della pellicola, per permetterne lo svolgimento: è stata due mesi all’interno di una campana di vetro in una soluzione chimica per sciogliere le parti incollate. Purtroppo, alcune scene sono andate perse ugualmente, anche perché questo tipo di degrado è imprevedibile: potrebbe non restare nulla da un giorno all’altro. Ci consideriamo comunque fortunati». Altra caratteristica importante di “Capelli Biondi”, al di là che si tratti dell’unica copia sopravvissuta, è il fatto che sia stato “colorato” con le tecniche di allora, marcando la differenza fra spazi esterni e interni, e fra luci accese e spente nelle stanze.

Dopo il trattamento particolare riservato a “Capelli BiondI”, con la contestuale eliminazione delle parti troppo compromesse, è partito il classico processo di restaurazione, lo stesso utilizzato per “L’Occhio di Shivah”, pellicola è lunga solo 15 minuti ma «con una storia interessante», racconta Maurilio, in quanto c’erano solo le riprese e le “istruzioni” per montarle, ma il film non era mai stato editato.

«Quando si restaura una pellicola la prima fase è quella di capire lo stato in cui riversa – spiega il responsabile della Cineteca dello Stretto – Nel caso de “L’Occhio di Shivah”, si trattava di una pellicola da 9,5 mm, una delle prime ad uso casalingo degli anni ’20, molto sottile. La sua particolarità è che si trova su un negativo camera, ovvero una pellicola uscita direttamente dalla videocamera con cui erano stati registrati i filmati nel 1926. La cosa eccezionale è che non era stato montato. Il regista, R. Gardenghi, di cui non sappiamo nulla, aveva solo filmato e predisposto il montaggio in dei foglietti, senza mai farlo. Si è trattato di un lavoro di restauro atipico: la pellicola è stata pulita e riparata per restituirle la flessibilità di un tempo. Poi lo abbiamo montato seguendo le istruzioni del regista ben cento anni dopo. Dopodiché il film è stato digitalizzato: ormai il restauro viene fatto digitalmente, non si stampa più una nuova pellicola. Infine, con il restauro digitale, si cerca di ridare alla pellicola la sua nitidezza, mantenendo la sua patina. Infine c’è la parte di “color correction”».

«Si pensa che la stessa perdita avuta per il cinema muto si potrà avere con i film in digitale – commenta Forestieri – Oggi siamo riusciti a recuperare questi film perché c’erano dei supporti fisici, che mancano nelle riproduzioni realizzate sul digitale. Un esempio calzante sono i floppy disk, che hanno bisogno di un hardware adeguato, o le VHS, le videocassette, il cui destino è di smagnetizzarsi. Il digitale dà l’illusione di un’eternità che non ha, da qui l’importanza delle cineteche, che si prendono cura delle pellicole, dei filmati, ma anche di videogame e altri materiali audiovisivi», conclude Maurilio, che insieme agli altri ragazzi della Cineteca dello Stretto organizza anche attività didattiche nelle scuole, come l’iniziativa “Avventure in cineteca” proposta ad una scuola elementare. Ma non solo, all’attivo ci sono anche laboratori e mostre.

Di seguito la storia di “Capelli Biondi”:

Italia, 1919.
Nasce la casa di produzione Costantini. Si tratta di una piccola realtà, che sembra aver prodotto solo una pellicola, Capelli Biondi, e dopodiché chiude i battenti.
Ortigia, 2022.
Dopo più di un secolo, riemerge dall’ombra questo lungometraggio, ancora avvolto in un alone di mistero. Sono state rinvenute quattro ‘pizze’ formato 35mm in nitrato di cellulosa, imbibite e virate, presso il settecentesco palazzo Corpaci di Siracusa, sede della struttura ricettiva “Lanterne magiche”.
Le poche notizie rinvenute fin’ora sono contenute nei preziosi volumi “Il cinema muto italiano” di Vittorio Martinelli e Aldo Bernardini, i quali non hanno rintracciato nelle riviste dell’epoca alcuna recensione di questo film, che, pare, sia stato completamente ignorato dal pubblico e dai recensori. Anche la regia, così come gli attori, rimangono ignoti.

Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di Salvatore Farina, pubblicato nel 1876.
Molto attivo nella seconda metà del 19esimo secolo, Farina prediligeva la stesura di storie dal sapore romantico e velatamente passionale, ambientate nella nascente classe borghese, e “Capelli biondi” non fa eccezione. Narra di un amore impossibile tra un conte e una giovane popolana, costretta a vendere la sua treccia bionda per curare la madre malata. Tra ostacoli e tradimenti, la vicenda ha un epilogo amaro. Il vero fulcro della vicenda è l’adorazione smisurata del conte per la ciocca di capelli biondi, ai limiti del feticismo.

Di seguito alcuni fotogrammi della pellicola “Capelli biondi” (tocca per ingrandire):

Di seguito alcuni fotogrammi della pellicola “L’Occhio di Shivah” (tocca per ingrandire):

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