“Si scrive Bondi, si pronuncia Bondai”.
Così facevo dire a Mattia Pascà, protagonista del mio romanzo “Latinoaustraliana”, nel 2015. Il suo primo incontro con l’Oceano Pacifico tanto sognato era avvenuto proprio su quella spiaggia, e non era stato un caso.
Anche la mia prima volta al mare qui in Australia è stata a Bondi. È lì che ho portato i miei, ancora freschi di jet-lag, appena arrivati dalla Sicilia per una vacanza insieme. E tutti gli amici che mi hanno fatto visita… sì insomma, avete capito.
Perchè chi passa dall’Australia, non può non passare dalla spiaggia di Bondi -per la sua notorietà, certo, ma anche perchè, non appena ci metti piede, capisce che questo Paese sta tutto là.
Che va bene l’Opera House, l’Harbour Bridge, Uluru, la barriera corallina -ma Bondi è tutto quello che ci siamo sempre immaginati dell’Australia, prima ancora di averla vista. La vastità di cielo e onde, la bellezza che ti allaga lo sguardo da est a ovest, la forma ad anfiteatro costellato da fish&chips, negozi di surf e birrerie, l’odore di crema solare e una distesa fin dove puoi vedere di corpi seminudi provenienti davvero da ogni angolo del mondo -in una parola, l’idea stessa dello stile di vita in Australia.
E poco importa se quello stile non esiste più, se anche questo Paese non è stato immune (a modo suo) a crisi economiche e sociali, e se quei tempi semplici restano più miraggio e ispirazione che modello da prendere alla lettera.
A Bondi ci si va almeno una volta, come una sorta di pellegrinaggio rilassato per appurare se questo Paese vale davvero la pena di farsi tutte quelle ore di volo, se tutto quel mare riuscirà ad annacquare un po’ le distanze da tutto quel che conosci.
Molti ci restano, ed infatti negli ultimi anni Bondi è diventata punto di incontro di tantissimi italiani che invece che ricostruire nuove Little Italy si incontrano qui in spiaggia per la durata di un weekend o di un visto.
Qui ci trovi di tutto, dal backpackers appena arrivato in città con due soldi in tasca ed un lavoro da lavapiatti alla famiglia di quattro generazioni, ai professionisti, i culturisti, gli attaccabrighe, i festaioli, i single, i ragazzini alla loro prima uscita, le coppie anziane che venivano qui quando ancora non c’era niente (nemmeno il fish&chips), dagli aussies a ragazzi da ogni lato del mondo, con dialetti e lingue diverse a mescolarsi al gracchiare dei telefoni con la loro musica troppo alta, alle grida di quelli che ti vengono a giocare a palla sempre accanto alla tua asciugamano, alle strilla felici dei bambini che si lanciano nelle onde di quel mare così freddo per un siciliano, senza neanche una Lipari per orientarsi o un sole da osservare al tramonto.
Da siciliano cresciuto a pane e mare, non pensavo di dover imparare niente nell’ambito. Eppure Bondi, prima ancora di qualunque altra spiaggia australiana, mi ha insegnato una cosa fondamentale: bisogna nuotare sempre e solo in mezzo alle bandierine.
Figurarsi: per me esistevano solo spiagge libere, mai visto un bagnino, chi se ne importa di quelle bandierine piantate da tizi col costume a mutanda.
Ho imparato a mie spese (senza nessuna grave conseguenza, per fortuna) che quello è un principio importantissimo da seguire: se vuoi stare al sicuro, devi saperti muovere in uno spazio definito.
Fuori da quello, sono guai.
Se ci nuoti dentro, però, sarai al sicuro sempre, niente potrà succedere.
Così pensavamo tutti fino al 14 dicembre scorso.
Quando sono arrivati i primi video, ho riconosciuto tutto. Le scalette, il parco.
Ho una foto su quelle scale insieme a mia moglie ancora incinta, in una bella serata di dicembre. Ho passeggiato coi miei in quel parco.
Quel 14 dicembre mi trovavo come tanti, immerso in una combinazione tra domenica natalizia ed estiva che solo questo Paese Fortunato (come lo definivano gli stessi aussies negli anni del boom) può regalarti – senza sapere che qualche ora dopo avrei provato a contattare amici che si trovavano lì, che scappavano da spari di cui non si capiva l’origine.
Che quella notte avrei parlato in videochiamata col Tg3 in Italia, condividendo tutta la mia confusione di quei momenti.
Che la mattina dopo al lavoro avrei sentito resoconti di colleghi rimasti bloccati lì, avrei visto video di conoscenti asserragliati in bagni pubblici e locali per potersi nascondere.
Si dice che uno degli elementi psicologici che ci porta a sentire più o meno un evento tragico è la sua prossimità. Possiamo essere empatici quanto vogliamo, ma sappiamo già che la strage di Bondi verrà dimenticata presto nel continente che ha visto attacchi negli ultimi anni a tantissime città. Un’amica di Parigi quasi non aveva nemmeno registrato quello che fosse successo -e lo capisco, perchè loro ne hanno vissute diverse in questi anni. Per non parlare dell’effetto ovattato che ci fa ormai ogni notizia di una sparatoria in America, di cui -cinico ma vero- ci dimentichiamo molto prima di quanto vorremmo.
Per tutti noi qui che viviamo a due passi, lo choc è stato amplificato anche da quella sensazione, precedente a quella mattina, che niente sarebbe mai potuto succedere qui, proprio qui, nella terra in cui i controlli alle frontiere sono così assurdi che ci hanno fatto pure una serie di reality di successo che va avanti da anni (anche in Italia), nel Paese in cui tantissime culture e nazionalità vivono fianco a fianco da prima ancora che se ne cominciasse a parlare altrove.
Che fine aveva fatto quello stile di vita che Bondi rappresentava?
Cos’era successo a quel senso di sicurezza del nuotare in mezzo alle bandierine?
Si è detto tanto, si è scritto troppo in questi giorni.
Sciacalli, retorica, motivazioni, previsioni, ricostruzioni. No, non ho troppa voglia di unirmi a nessun tipo di coro, nè di ripercorrere tutto quel che è successo (e che potete trovare qui se volete saperne di più).
Ho guardato, come tutti qui, le manifestazioni, le celebrazioni, l’esercito di surfisti in acqua a rendere l’ultimo saluto alle vittime.
Ho osservato al telegiornale la spiaggia di Bondi vuota come si era visto solo durante il lockdown -altra emergenza, altra situazione fuori dal tempo a ricordarci tutti i limiti della nostra umanità.
Faceva effetto vederla così, mentre la ricordavo come la mia prima volta -un posto pieno di gioia, l’illusione più che credibile della spensieratezza, il senso di condivisione di un momento speciale e semplice come un bel giorno di sole.
Il passato, quell’assurdo presente.
E poi, il futuro.
La mattina del 14 dicembre, diverse ore prima dei fatti, quando Bondi era ancora Bondi, mi trovavo in centro con mia moglie e mio figlio in un mercatino natalizio.
Ricordo che ho scattato una foto che mi era piaciuta parecchio, in cui mio figlio -di nemmeno 2 anni- sollevava le braccia allegro, quasi in celebrazione della baia e del ponte di Sydney di fronte a lui in quel meraviglioso mattino estivo.
Riguardandola, mi è venuto da pensare che parte del motivo per cui amo quella foto è perchè mi sentivo proprio così quando ero arrivato per la prima volta in Australia. Il senso di libertà, la bellezza, quel cielo così perfetto.
Mi sono chiesto vagamente quando dovrò insegnargli a nuotare in mezzo alle bandierine.
E di certo non solo al mare.
Mi domando se si sentirà al sicuro là in mezzo, come ci siamo sentiti noi per tanto tempo.
Non ho una vera risposta a questo, ma so una cosa: che faremo del nostro meglio per far sì che succeda, per non sprecare quella sua gioia o rovinare quella sua libertà.
Ed è ancora l’unica risposta buona che mi riesco a dare.





