Per sapere l’esito di tutta la faccenda sarebbe bastato chiedere a noi messinesi. Noi messinesi, che al nome di Gian Piero Ventura, precorrendo come sempre i tempi, leghiamo uno dei ricordi più calcisticamente amari che ci possano essere, una stilettata nel pancreas nella quale da undici anni viene versato aceto e sale. Più o meno quello che da ieri sera alle 23 stanno provando una sessantina di milioni di italiani.
Perché quando perdi un derby con la Reggina per tre a zero, risultato difficilmente equivocabile, e vieni spedito a calci nel culo in serie B dai rappresentanti sportivi degli esseri viventi che più disprezzi (si parla sempre di calcio, astenersi commentatori indignati), l’ultima cosa che vuoi sentire è un allenatore che, inconsapevole dell’ondata di suicidi che potrebbe scatenarsi ad appena quattro km di mare più in là, negli spogliatoi candidamente spiega più o meno che “finché la matematica non ci condanna non molliamo”, non sapendo che la matematica aveva già condannato il Messina alla serie B, mentre il suo allenatore non lo sapeva.
Caduto dalla naca, si dice in questi casi. È il 30 aprile 2006, Messina che perde male a Reggio e retrocede, l’allenatore che non lo sa. Basterebbe questo a connotare tutta la vicenda e bollarla come barzelletta. E invece no. Come in una specie di beffardo supplizio di Tantalo, noi messinesi siamo costretti a rivivere quei momenti. Avremmo dovuto saperlo, avremmo dovuto avere il callo, invece no.