UNA BREVE PREMESSA. Poco prima del lockdown avevamo stabilito di inaugurare una nuova rubrica che raccontasse in una serie di appuntamenti settimanali le meraviglie dello Stretto di Messina: le caratteristiche dei fondali, la fauna, la flora, i relitti, i Miti, la conformazione morfologica, le zone di pesca ecc.. L’obiettivo era quello di far conoscere ai lettori cosa si nasconde sotto le nostre acque, evidenziando le peculiarità di un luogo forse unico al mondo. Per questo abbiamo subito contattato una serie di esperti, per ciascun settore, che potesse aiutarci a raccogliere informazioni e materiale. Una delle prime persone con chi abbiamo parlato, in un caldo pomeriggio di fine febbraio, è stato Giuseppe Sanò. Lo abbiamo incontrato sulla spiaggia di Capo Peloro, davanti all’Ecosfera diving di Domenico Majolino (che ringraziamo per l’aiuto), dove abbiamo discusso sull’impostazione che avremmo potuto dare ai servizi, sulle problematiche della pesca e sulla necessità impellente di salvaguardare l’ambiente marino, magari con l’istituzione di una “riserva naturale protetta”, sulla scia di quanto fatto a Milazzo. Qualche giorno dopo è arrivata la pandemia, che ci ha costretto a rimandare tutto, con la promessa che ci saremmo aggiornati il prima possibile. Non è stato possibile, purtroppo. Ma se abbiamo potuto scrivere questo articolo, e quelli che verranno, è anche e soprattutto merito suo. Grazie, Peppe. 

 

di Claudia Mangano e Marino Rinaldi

MESSINA. Erano le 5 e 21 del 28 dicembre del 1908 quando la città di Messina, ancora addormentata, fu colpita da un terremoto di magnitudo 7,1 della scala Richter che in appena 37 secondi cancellò secoli e secoli di storia. A rendere la tragedia ancora più nefasta, furono tre onde di 13 metri che si abbatterono con una violenza inaudita sulla costa, devastando l’area portuale e provocando l’affondamento di alcune imbarcazioni. Fra queste, anche la nave mercantile “Produgal”, che si trovava all’interno del bacino di carenaggio per delle riparazioni, i cui marinai, come raccontarono due giornalisti del “Victoria daily colonist” e del “The Mercury” (un giornale canadese e uno australiano), dopo essersi messi in salvo e aver visto affondare la propria imbarcazione furono fra i primi a soccorrere i pochi sopravvissuti al disastro in quella fredda e indimenticabile giornata d’inverno.  «Un episodio di solidarietà internazionale – scrive il compianto Sebastiano Tusa – che ci fa riecheggiare nelle orecchie il tanto abusato ritornello della Sicilia crocevia di popoli e civiltà mediterranee ed extra mediterranee».

 

 

 

 

Più di un secolo dopo, quella nave 
costruita nel 1890 in Inghilterra si trova ancora lì, sepolta in un cimitero sommerso all’interno della Falce, con la maggior parte della struttura ancora integra e la cucina ancora intatta. Insieme a lei, da Mortelle alla zona sud, sono ben 17 i grandi relitti insabbiati nei fondali dello Stretto che sono stati “riportati in superficie” da Domenico Majolino e Marco Giuliano nel libro “I percorsi dello Stretto”. Un volume che attraverso un itinerario fatto di mappe, indicazioni e foto delle immersioni, racconta la storia dimenticata di tanti bastimenti e marinai che con i loro traffici marittimi “hanno contribuito a caratterizzare la cultura delle genti dello Stretto di Messina”, un’area di appena pochi chilometri che può essere considerata a tutti gli effetti come “un laboratorio naturale di tutto il Mediterraneo”.

Nascosti da decenni nei fondali delle coste messinesi vi sono relitti risalenti alla seconda guerra mondiale, navi di contrabbando e portamerci, riscoperte nel corso di numerose immersioni che hanno consentito di recuperare ciò che il tempo e la Natura avevano celato, riportando a galla le storie di tutti quei marinai, militari e civili, che hanno perso la vita nel loro mare.

Fra queste abbiamo deciso di raccontare (in due puntate) quelle più importanti e simboliche, mostrando con foto e video ciò che resta di quelle storiche imbarcazioni.

 

 

 

 

“Valfiorita”

Il più importante tra i relitti dello Stretto è sicuramente la Valfiorita, varata nel 1942 a Taranto: una moderna nave da trasporto con motore diesel ed equipaggiata con tre mitragliatrici antiaeree e  un cannone.
Il suo primo viaggio prevedeva, partendo dal porto di Taranto, il trasporto di uomini e mezzi fino a Bengasi, ma durante la navigazione, a mezzanotte, un aereo inglese a bassissima quota sganciò un siluro che colpì l’imbarcazione sul lato sinistro. Nonostante la risposta armata, la nave riportò una serie di danni ma riuscì comunque ad arrivare a Corfù.

Durante la seconda guerra mondiale la “Valfiorita” venne poi utilizzata per rafforzare la difesa dell’isola nonostante non avesse un impianto antincendio e si trovasse sprovvista di materiali bellici. Mentre si trovava nei pressi di Capo Milazzo, la nave venne centrata da due siluri partiti da un sommergibile britannico. L’impatto provocò un incendio che si estese in maniera repentina. Dopo due ore il comandante diede l’ordine di abbandonare la nave; alle due di notte (dopo cinque ore dall’attacco) la nave si andò a incagliare e alle 12:00  del giorno dopo colò a picco. Reperire le immagini fotografiche si questa nave è estremamente difficile e quelle più diffuse mostrano in realtà navi con lo stesso nome.

Il video in basso, realizzato “ad hoc” da Vincenzo Striano, mostra la nave da prua a poppa, fra scheletri di automezzi, resti di casse e materiali vari che rivivono nella luce dei fari, finché, una decina di metri più giù lungo le numerose ed enormi reti che nel corso degli anni sono state perdute sul relitto, si giunge fino all’asse, privato dell’elica da ignoti, con il timone adagiato sul fondale a 62 metri di profondità.

 

 

 

La prua della Vialfiorita – Foto di Alessandro Pagano

 

 

“Maddalena Lofaro”

La Maddalena Lofaro era un mercantile di origine tedesca realizzato nel 1955 con lo scopo di trasportare autovetture (forse fu la prima in assoluto con questo scopo). Alle 2:00 della notte del 2 luglio 1980, mentre la nave viaggiava sulla rotta Anversa-Beirut, nelle stive si scatenò un improvviso incendio che in pochissimo tempo divenne indomabile. Verso le 8:30 venne lanciato l’S.O.S., quando la nave si trovava a trenta miglia dalla costa ionica, di fronte a Letojanni-Taormina. Ore dopo i rimorchiatori trainarono la nave ormai irrecuperabile nel porto messinese, dove è affondata in attesa di un recupero delle lamiere, nel punto dove tutt’ora si trova il suo relitto, compresi gli “scheletri” delle macchine trasportate. Fino a qualche anno fa la prua affiorava quasi verticale a pochi metri dalla battigia; oggi questa parte di nave si è staccata e giace capovolta a poca distanza dal troncone principale.

 

Stive della Maddalena Lo faro – Foto di Alessandro Pagano

 

Le stive della Maddalena Lofaro -Foto di Alessandro Pagano

 

 

“Arturo Volpe”

La nave a vapore Arturo Volpe fu costruita nel 1950 in Germania e fu varata con il nome “Jupiter”.
 L’imbarcazione faceva parte di una commessa di cinque navi fatta nel 1949 da una compagnia tedesca. Tra queste, nel giro di vent’anni, ne vennero demolite tre.
La Jupiter venne così rivenduta a una compagnia di navigazione italiana e prese il nome Arturo Volpe. È l’ultimo esemplare rimasto di un gruppo Potsdam-Schiffe, cioè un particolare tipo di nave da carico, lenta e piccola, con la quale gli armatori tedeschi hanno ricominciato a ricostruire la flotta mercantile tedesca dopo la seconda guerra mondiale (gli accordi di Potsdam imponevano alla Germania di non costruire navi con stazza maggiore a 1500 tonnellate e velocità superiore ai 12 nodi).
All’alba del 26 febbraio 1973, l’Arturo volpe ha lasciato un porto sul Mar Nero con un carico di legname russo in direzione Napoli. All’uscita dello Stretto di Messina, tuttavia, una tempesta con mare forza 8 si scagliò sulla piccola nave (in particolare le onde colpirono lo scafo, che però resistette). Il comandante per sicurezza invertì la rotta dirigendosi verso baia Paradiso, ma improvvisamente il carico si spostò (almeno è quello che si presume) facendo capovolgere la nave. 
I 17 membri dell’equipaggio finirono in acqua, i soccorsi arrivarono rapidamente ma il bilancio fu tragico: 14 feriti e 3 morti. 

Quella stessa tempesta ha causato l’affondamento della Island Creta nelle acque di Milazzo (il cargo trasportava un ingente carico di sigarette di contrabbando e probabilmente ad appiccare l’incendio fu lo stesso comandante, Nicola Papakiritsis, nel tentativo di distruggere le prove illegali).

Il relitto della Arturo Volpe rappresenta l’unico reperto storico della nascita di alcune società armatrici tedesche ed è opportuno che venga preservato, ragion per cui la Ecosfera nel 2009 ha chiesto alla soprintendenza un provvedimento di tutela.

 

 

La Arturo Volpe

 

La Arturo Volpe in navigazione

 

 

Nella prossima puntata sui relitti la storia del “Cariddi”, della “Bowesfield (il più antico fra i relitti dello Stretto) e altre ancora.

 

Tutte le informazioni contenute nell’articolo sono tratte dal volume “I percorsi dello Stretto”, edito dalla cooperativa sociale Ecosfera, nata nel 2001 come partner del parco Horcynus orca, che si fonda su principi di valorizzazione e compartecipazione di attività legate al mare. Si ringraziano Domenico Majolino e Vincenzo Striano per la disponibilità e la collaborazione.