“Ragioniere, quante volte te lo devo dire che le tasse sono come la droga? Se le paghi una volta, anche solo per provare, finisci che ti prende la voglia”. È finito Sanremo e questa frase di Antonio Albanese nei panni di Cetto Laqualunque descrive bene la situazione. Lo si segue, in tanti, a prescindere se piaccia o meno. Perché è un quadro del nazionalpopolare, delle tendenze, e qualcuno lo vede anche per la musica. Non ho mai fatto mistero del disprezzo che provo per chi segue la tv solo per cercare il trash, e il festival ogni anno raccoglie una mandria di gente che scrive tutta uguale in caps su Twitter e deve esagerare tutto (FESTIVAL CHE NON DIMENTICHEREMO È SUCCESSO *inserire porcata random*), e per contrastare tutto questo oggi la playlist è particolare: oggi risulterò pedante (ok boomer) perché vi spiego quattro belle lezioni che ci ha lasciato la settantesima edizione del festival di Sanremo e una triste, perché la vita non è mai come la si vorrebbe.

Nick Cave And The Bad Seeds – Where the Wild Roses Grow (feat Kylie Minogue)

La prima lezione è non parlare se non si sa di cosa si parla. Il prologo: tra gli invitati di questa edizione c’era Junior Cally e apriti cielo, qualcuno scopre che un rapper ha scritto una canzone parlando di violenza in prima persona, con termini cruenti. Qualcuno pensi ai bambini, perché non è possibile che si dicano cose cruente. La cronaca: Junior Cally si è presentato sul palco senza maschera e con una canzone con sfondo sociale, piaccia o meno comunque qualcosa che ha avuto il suo senso in un contesto come questo Sanremo. Di violenza? Manco l’ombra. Lui sempre elegante e classico, senza concedere nulla alle polemiche, forse un po’ troppo ma lì sta alla decisione del singolo. Dato che (ci ritorneremo) in questo paese per parlare di cose frivole si devono sempre scomodare esempi importanti, associamo a questa lezione un brano bellissimo di Nick Cave e Kylie Minogue, il cui video si apre proprio con il cantautore australiano che si lava dopo aver ucciso la Minogue. Eh ma è viulenza.

Beck – Loser

La seconda lezione è rispettare questa arte. Il prologo: non ho mai avuto particolarmente in simpatia le band presobeniste a prescindere, per cui potete immaginare le difficoltà del mio rapporto con i Pinguini tattici nucleari. La cronaca: Ringo Starr ricalca in pieno lo stilema della loro musica, “in un mondo dove tutti sono A io sono la Z”; ho ascoltato musica da perdenti per un’intera vita e nessuno di questi era *davvero* felice di esserlo, tutti lo accettavano cercando di migliorare il proprio status quo. Un insieme di citazioni pop (che alcuni hanno definito “sottili”, e non me ne capacito) e un’esaltazione del disimpegno, cantato con gioia e allegria. Questa per me è una grande contraddizione. Dato che quando si parla di loser il richiamo più immediato e amorevole è il brano di Beck, lo ascoltiamo facendo molta attenzione a quel passaggio tratto dal film “Kill the moonlight”: “I’m a driver, I’m a winner / Things are gonna change, I can feel it”. Tutti a scuola, ha parlato il professore.

Dead Kennedys – Kill the poor

Il prologo: In una chat con degli amici parlavamo di Sanremo. Qualcuno ha scritto che Achille Lauro ha un’attitudine punk. Riporto di seguito un messaggio di risposta ringraziandone l’autore, il caro Mattia, che per smontare questa credenza tutta italiana parla dei Dead Kennedys.

Nati a San Francisco negli anni ’80, la generazione successiva a quella dei figli dei fiori. 20 anni prima ondate di freakkettoni che suonavano MALE la chitarra si sono trasferiti a San Francisco nominandola nuova terra promessa. Basta profitto, basta guerra, AMIAMOCI! Ecco in quel paradiso nascono i Dead Kennedys, gruppo PUNK con un unico messaggio: “FATE SCHIFO!”. In breve: Kennedy è morto, i veri nazisti siete voi, arrivati in California da freakkettoni e diventati avvocati ed ingegneri, tutto fa schifo, dovete morire. Nessun altro messaggio, solo questo. Per altro particolarmente efficace. Ho paura, che chi invece carichi il punk di messaggi politici siamo solo noi italiani, nati e cresciuti in una bolla culturale dove la musica doveva avere per forza valenza politica, perché De André, Guccini e tutti gli altri. Passano i ’60, i ’70, gli ’80 e poi arrivano i ’90 dove ancora abbiamo bisogno di caricare di significati sociali canzoni che provengono dai quartieri umili delle nostre città, ma non è così. Ricordo sempre quando Tupac venne in Italia a metà anni ’90, chiese com era il movimento rap nel paese e qualcuno gli presentò Neffa. Neffa gli spiegò che appena diventato famoso la basa ha iniziato a chiamarlo COMMERCIALE e Tupac chiese spiegazioni tipo “Scusa? Com’è questa storia? In questo paese se diventi famoso i ragazzi della tua ghenga invece di stappare champagne con te iniziano a darti del venduto?”.

VazzaNikki – Tappa-boogie

Perché la chiusura sarà difficile, quindi dobbiamo tirarci su. Il prologo: il dopofestival quest’anno si chiamava diversamente e conduceva Nicola Savino, con ospite in studio Valerio Lundini, personaggio meraviglioso dall’ironia strampalata e adorabile. La cronaca: nell’ultima serata, aspettando in studio Diodato, si doveva improvvisare un tappabuchi. Lundini e la band (i VazzaNikki) mettono su questa, che non è inedita ma siamo sempre nel magico mondo della tv. Un tappa-boogie esemplare, perché non dobbiamo sempre prenderci sul serio.

Brothers in law – 40 Hours

Non era prevista questa come chiusura. Ma purtroppo la vita non è come la tv, non è possibile fare in modo che tutto diventi bello. Poche ore fa è venuto a mancare un artista italiano, uno di tutto rispetto, uno che ha fatto parte della scena pesarese che ho adorato in questi anni, tra Be Forest, Soviet Soviet e i Brothers in law, quelli forse meno noti ma che sul palco e su disco hanno sempre fatto benissimo quello che sapevano fare: ricamare sogni. Poche ore fa è venuto a mancare Andrea Guagneli, batterista dei Brothers In Law e le parole, le buone intenzioni, la voglia di regalare un sorriso a chi legge queste righe, tutte queste cose sono difficili da far emergere perché è una notizia triste, una di quelle che fa calare le nubi. Hard times for dreamers, il loro disco del 2013, è pronto a essere riascoltato per poterlo onorare. La vera lezione, più che il trash, i social, il punk, i messaggi inviati dall’Ariston, ce la dà l’impatto forzato con la realtà.

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