Il restauro zelante del graffito murale con la scritta Mussolini su palazzo Magaudda di via Garibaldi è stato narrato come metodo di filologia storica e sedimentazione delle tracce. “Lui” con la sua firma in corsivo è riapparso dall’oblio come quegli inchiostri indelebili che tanto fanno dibattere l’opinione pubblica e gridano allo scandalo per l’attivismo politico fatto con lo spray.

Quello che è riapparso sul quel palazzo in via di restauro stride con la qualità dei segni dell’architettura e dell’apparo decorativo in quanto le firme del duce apposte ai lati delle finestre sono posticce come uno strato superfluo che nulla a che fare con la materia e con l’architettura. Nelle città italiane molte scritte, epigrafi, motti del fascismo erano quasi sempre posticce, decise dal Podestà dell’epoca con una logica strategico comunicativa della Propaganda che piazzava scritte lungo gli assi viari principali, i punti di landmark e sugli edifici pubblici. Ho fatto il liceo con l’edificio marchiato sul cantonale d’angolo con il motto tronfio “30 secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d’oltralpe”, ho abitato in edifici con simboli ed emblemi del fascio senza avere nessuna turba se non quella che molte volte erano appiccicati o pacchiani o fatti da scalpellini con la mano infelice. Ma in questo caso è peggio: hanno ridato luce alle scritte a olio con la firma MUSSOLINI, insomma hanno restaurato il tag, il tatuaggio propagandistico del Mincul-Pop, l’ossessione e il disturbo della personalità che compulsivamente apponeva nome e cognome del duce su tanti palazzi, un po’ come quei casi disperati di compagni di scuola che mettevano nome e cognome su tutte le pagine del tuo diario o sui muri della scuola e ti chiedevi perché.

Oggi diremmo che chi scrive serialmente sui muri la propria firma è un “vandalo” e un narcisista: Mussolini (sicuramente narciso) e i suoi podestà furono dei vandali non solo per le scritte sui muri. L’italia è una Repubblica nata dalla Resistenza e dalla vittoria storica su quella storia e su quel dittatore. Mi chiedo dunque che tipo di valutazione occorra fare negli uffici della Soprintendenza per capire quanto è stato discutibile suggerire o avallare il restauro del graffito posticcio ad olio su un palazzo privato e precisamente proprio il nome e la firma di un dittatore. Vedo, poco lontano da quel palazzo, i ponteggi in allestimento sull’ex palazzo Littorio oggi Catasto, e mi chiedo se restaurando le facciate di potrebbe vedere apparire nuovamente traccia della M mussoliniana su decisione degli stessi funzionari, o il cubitale Dux sul muraglione sotto il sacrario di Cristo Re. Ipotizziamo questa iperbole: se accadesse questo cortocircuito tra stenosi della conservazione e consapevolezza dei significati, per paradosso quella scelta del palazzo Littorio avrebbe una logica consequenziale legata a quell’organismo architettonico, nato, immaginato e costruito come palazzo del Fascio e rappresentazione di quel Potere-Stato. Ma nel caso del Palazzo Magaudda, cari architetti, funzionari e restauratori, sinceramente vi chiedo di rimediare l’errore, perché io tra il tag Mussolini e il tag il Punitore sui muri della nostra città non vedo nessuna differenza; e anzi per essere più chiari e per evitare che un giorno qualcuno voglia proporre di restaurare pure I Love Cioccio, levate da quei muri il graffitaro Benny Mussolini e anche i fronzoli simbolici falce e martello della sopraelevazione improbabile anni ’70 dell’ex sede dell’ex PCI. Perché lo sappiamo tutti che la storia non è accumulo di tutto ma è anche oculata selezione.

Oppure per opposto abbiate uno scatto di creatività, contro ogni cancellazione, interrogatevi senza sconti, costruite una nuova prassi, fate non una ma pure dieci riunioni e continuate il tatuaggio dell’edificio, prendete spunto da Gianni Rodari quando in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960 scrisse in un suo articolo sulle scritte al Foro Italico che inneggiano al fascismo, “Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte.”

Per Rodari le aggiunte dovevano riguardare il dolore che il fascismo aveva inflitto.

I proprietari e tutti gli attori di questa vicenda mi diranno che questa proposta di “tatuaggio” non appartiene all’architettura e che non riguarda il compito istituzionale di quegli uffici, ma a me viene da ribattere: sì è probabile, ma tanto quanto aver riattivato la superfetazione della firma indelebile di un dittatore.

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