L’immagine appare come sempre scattata da un dilettante. Lo sfondo è quello di un ufficio ridotto a trattoria di fortuna, com’è frequente che avvenga nelle foto a sfondo gastronomico di Cateno De Luca. Tre uomini posano dinanzi a un “filoncino di pane di appena tre metri”. Due uomini sorreggono il ben di dio sorridendo sotto le mascherine. Un terzo, sulla sinistra, non lo tocca e sembra presiedere alla scena per dovere.

Poche righe descrittive poste sotto la foto ci spiegano che il filone è il dono di un panificio, il cui nome viene ben indicato, rivolto a tutti gli operatori e volontari del Centro Operativo Comunale.

I commenti si susseguono copiosi e il loro tono è come sempre diviso. Del resto, si sa, De Luca funziona soprattutto attraverso le divisioni sociali che genera. Ed è così che alcuni commentatori osservano che l’immagine è volgare. Mentre altri trovano offensivo mettere in scena l’opulenza in un momento di fame collettiva non-metaforica. Vi è infine chi si rallegra della generosità del panificio, interpretandone l’atto come un giusto compenso per l’attivismo del sindaco e del suo staff.

Quanto a me, osservo la scena con la mia consueta freddezza. Certo, è un’immagine che veicola volgarità, mi trovo a pensare. O forse, osservo, è semplicemente anti-fotografica. È una scena, cioè, in cui tutto è anti-estetico e nulla vale la pena di essere ricordato, incluso il filoncino di tre metri. Ma so anche che è una foto rituale e dunque tipica. È parte cioè di una serie di immagini che assolvono delle precise funzioni.

Mi dico così che questa è una foto appartenente al genere di quelle che devono dare corpo a un’idea semplice e a misura di semplici: quella dell’amore popolare per il padre della comunità. Un amore, dunque, che si manifesta attraversa il dono “gratuito”, cioè “di gratitudine”. I semplici di spirito veri e sedicenti dichiarano di interpretare la scena meccanicamente e in quei termini, non intravedendovi alcuna malizia. Gli altri storcono il naso. E anche io insieme a loro.

Penso dunque al dono gratuito e mi viene in mente come il primo e forse più importante libro sull’argomento, quello di Marcel Mauss, neghi che esista questo oggetto. Ogni dono, ci spiega quel vecchio libro, è un debito contratto che si salderà in modo posticipato nel corso del tempo. Ogni dono, dice Mauss, implica la creazione di una relazione e di uno scambio. Il dono, insomma, mette in essere un rapporto politico tra individui o tra comunità (si pensi alle mascherine regalate dalla Cina, per esempio).

Mi chiedo dunque se storco il naso perché quegli atti gratuiti – che forse vanno letti in quanto tali, anziché con l’interpretazione maliziosa dell’antropologo – non richiamano in me l’idea del Padre, ma quello di uno “scambio” politico.

Complico allora il modello interpretativo e mi chiedo se lo “scambio” non sia invece immediato e, dunque, esaurisca immediatamente il circolo della reciprocità. Se, cioè, lo scambio simbolico consista nell’atto del dono seguito dalla diffusione immediata del marchio sui canali del Sindaco. Se, dunque, lo scambio si esaurisca subito e sia essenzialmente pubblicitario. Dopo tutto, mi dico, quella di De Luca è una vetrina che raggiunge potenzialmente oltre 400.000 persone e diverse migliaia nel corso di ogni diretta quotidiana.

Ma sono felice che l’autorità pubblica, divenuta impresa personalistica, divenga anche un’agenzia pubblicitaria o, forse, una pro-loco che esibisce prodotti gastronomici e rosticcerie come risorse di un brand territoriale? Mi chiedo dunque cosa implichi questo e perché provo fastidio. Forse perché le piccolissime imprese, impossibilitate a fare pubblicità, devono affidarsi all’autorità pubblica per potere essere competitive?

Mi dico che questa interpretazione postula l’esistenza di un sistema relazionale di tipo feudale, che implica la consegna del soggetto più debole a un signore. È, cioè, un atto economico che sottintende un assoggettamento politico e ha luogo in una cornice caratterizzata dalla distribuzione asimmetrica di potere. Mentre osservo che anche questa possibilità mi infastidisce, mi ricordo di una conversazione avuta con un amico qualche mese fa. Mi diceva che stava geolocalizzando i donatori e dividendoli per tipologia commerciale.

Scherzando, ci siamo detti che qualcuno potrebbe avere interesse a quella lista per organizzare un sabotaggio commerciale come quelli che di tanto in tanto vengono organizzati contro la Nestlé oppure Israele. Entrambi, infatti, avevamo scoperto di non comprare più nulla dalle rosticcerie segnalate nella pagina del Sindaco e di conoscere altri che facevano lo stesso. Il mio amico, che è un elegantone, ha aggiunto che non compera più neanche le camicie di un sarto che aveva fatto dono dei suoi prodotti al primo cittadino.

Ma al di là degli scherzi o delle pratiche inattese e di segno contrario generate dagli usi promozionali del dono, penso che quelle espressioni di gratitudine sono potenzialmente anche dei dati, che possono essere impiegati per fare analisi ex-ante ed ex-post sulle determinazioni di voto. Sarebbe possibile per me e per i miei colleghi valutare se e come queste operazioni abbiano creato un blocco sociale e quali ne siano gli orientamenti. Per noi, insomma, fare analisi politologica. Per altri chissà cosa.

Insomma, mi dico, anche a postulare la gratuità di un gesto, questi non sono mai privi di conseguenze e pongono in essere relazioni su cui si può lucrare in modo variegato, da posizioni diverse e per ragioni anch’esse differenti.

Ma i commercianti tutto questo lo sanno?