“Una storia dell’arte che sia soltanto collezione delle emergenze inventive ritiene della storia solo il nome, non di certo ciò che con esso presume di indicare. Il critico che così si conduca è come lo scienziato che, dovendo studiare un bosco, si ritenga pago di descrivere un certo numero di alberi che gli sembrano più significativi o più belli, trascurando la rete sottile di relazioni che legano gli alberi fra di loro e questi agli altri esseri viventi, alla terra, alla natura tutta: ciò in sostanza che di una massa di alberi fa un bosco. Da qui l’esigenza, dunque, per lo storico dell’arte che voglia essere uomo di scienza e non pescatore di perle (e ciò sia detto senza alcun disprezzo per coloro che nella fruizione dei fatti artistici si collocano al livello del vissuto sia pure, come è più spesso, di un vissuto morbosamente avvertito) di penetrare tutta intera la vicenda dei fatti artistici, che non è fatta solo di invenzioni ma anche e soprattutto di ripetizioni”.

Così Antonino Buttitta, un grande antropologo siciliano purtroppo scomparso.

Quel morbosone di Vittorio Sgarbi ritiene invece che la storia dell’arte sia la storia delle emergenze, dei massi erratici, e si misuri a spanne, a forza di singole individualità geniali. Almeno così par di comprendere dalle sue frequenti manifestazioni d’intenti, tutte volte a movimentare capolavori siciliani, prelevandoli dai loro ordinari spazi espositivi per mandarli a impreziosire mostre da lui curate. Stavolta tocca al caravaggesco Seppellimento di Santa Lucia di Siracusa (peraltro custodito in modo incongruo già nella sua attuale collocazione, ma questo è un altro discorso, attiene al modo in cui gli amministratori regionali tengono in non cale il patrimonio isolano), altre volte è toccato ad altre opere, tutte splendide e meritevoli di miglior sorte, ma non certo di venir prelevate dai luoghi di giacenza, con i quali le lega la fitta trama di vicende che le ha fatte nascere là e non altrove. Pare insomma che la nostra Isola sia per Sgarbi una sorta di enorme riserva di caccia alla quale attingere per implementare e arricchire il suo già prestigioso pedigree di storico dell’arte, prelevare mirabilia in grado di dare ulteriore lustro alle sue iniziative. Stavolta però il nostro critico è pronto a parare il colpo delle proteste, pervenute da molte parti. Se non mi date il vostro Caravaggio, egli sbotta, poco male, me ne prendo un altro altrove. Al posto della Santa Lucia siracusana andrà altrettanto bene la Flagellazione di Cristo napoletana. Un po’ alla maniera delle Figurine Panini…

E i politici locali, quasi tutti, sempre lì a osannarlo, quasi che la Sicilia avesse bisogno di un redivivo Vate ritornato per dare visibilità ai nostri capolavori. Ma che venissero, che venga il mondo intero a vederle qui da noi queste opere, portando ossigeno alla nostra economia, asfittica per una politica miope che si ostina a considerare i beni culturali delle merci anziché delle risorse di civiltà, di crescita comunitaria, di educazione all’apprezzamento dei beni comuni. Delle opportunità infine di memoria, una dote di cui le nostre comunità sempre più risultano sprovviste, ammaliate come esse sono dai proclami populisti degli ilari governanti oggi al potere.

Che si tratti del Satiro di Marsala, dell’Ignoto Marinaio del Mandralisca o di qualunque altra opera, maggiore o minore (sempre che sia lecito usare questi termini) del nostro glorioso passato, la logica è sempre quella unilateralmente predatoria, le cui ricadute economiche e di immagine si sono sempre rivelate risibili, se non sotto la veste di eventi mediatici di effimera sorte apparecchiati per la kermesse di turno o per soddisfare la vanità della primadonna di turno.

La Sicilia per crescere non necessita di sporadici riflettori puntati su alcune sue prestigiose emergenze, ma di investimenti sull’educazione dei suoi abitanti. Educazione, un termine assai pericoloso per chi necessita di poter contare su elettori poco consapevoli, di bocca buona, pronti a esaltarsi per un articolo giornalistico o una comparsata televisiva, e lavora cinicamente al perdurare di tale condizione di miseria culturale.

“Non di solo pane vive l’uomo. Io, se avessi fame e mi trovassi invalido in mezzo alla strada, non chiederei un pane; ma chiederei mezzo pane e un libro. […] Libri, libri! È questa una parola magica, che equivale a dire: amore, amore! Una cosa che i popoli dovrebbero chiedere, così come chiedono il pane o come pioggia per i loro campi seminati”.

(Federico García Lorca, nell’inaugurare la biblioteca del suo paese natale).

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