MESSINA. Oggi, domenica 4 agosto, per l’Horcynus Festival, in prima assoluta la produzione del Teatro Biondo di Palermo: Santa Samantha Vs. Sciagura in tre mosse.
Testo e regia sono di Rosario Palazzolo, le scene di Luca Mannino, le musiche originali di Francesco Di Fiore, le luci di Alice Colla, assistente alla regia è Angelo Grasso. Alle 19.30 va in scena Lo Zompo, con Rosario Palazzolo, alle 21.15 Mari/age con Alessio Barone, Delia Calò, Chiara Italiano, Viviana Lombardo, Sabrina Petyx, alle 22.30 La veglia, con Filippo Luna.

Santa Samantha Vs – sciagura in tre mosse è qualcosa di caotico e di misterioso, di festoso e di rivoltante, è il teatrino di una parrocchia, una sala trattenimenti e una camera mortuaria. Tre luoghi per tre spettacoli differenti, autonomi ma collegati come una sorta di narrazione seriale. Sette personaggi vivono e scompaiono e tornano e si alternano, sette personaggi che vediamo crescere e vivere e mutare così come la storia, una storia che si sviluppa intorno alla figura di Samantha, una bambina, una donna che nasce a Palermo e che vive un’esistenza minima, fatta di cugine, di santissime marie, di credenze popolari che l’incoronano, suo malgrado, “Madonna in terra”, obbligandola a dispensare miracoli, a tutti i costi.

 

Lo zompo Nunzio Pomara è un uomo fragile, insicuro, ma di una potenza linguistica formidabile; un uomo tenace, anche, che letteralmente zompa nel teatrino parrocchiale in cui sta per iniziare l’immancabile appuntamento mensile detto Della Rivelazione e obbliga l’uditorio – ovvero i miracolati – ad ascoltarlo, urlando e sospirando tutto il suo odio per una cultura del niente che pretende di determinare le esistenze, di ancorarle alla tradizione, di misurale col metro rotto di una Madonna che piange per il mondo intero. Ma il mondo intero è davvero troppo intero per poterlo contestare, e difatti saranno accuse forti e mirate come un bel buco nell’acqua.

 

Mari/age è un congegno spaventoso, una festa pirotecnica, un incubo balthusiano che invade la sala, sposta il pubblico, lo disarciona, gli impone di ridere per una storia triste, fissata su un tempo fermo, con l’orologio avanti e indietro.

È anche un matrimonio, ovviamente, quello di Samantha, una giovane donna obbligata a distribuire miracoli in una Palermo decadente e trash, che si fa universale, trasversale, ecumenica. Ed è la storia di Rita e Fatima, le terribili cugine di Samantha, due signorine perfettamente a loro agio nel ruolo di mantenitrici di un equilibrio malsano, che sgambettano pubblicamente affinché vengano reiterati i medesimi meccanismi del privato, quelli in cui ciascuno ha un ruolo prestabilito, garantito, necessario.

Il tutto in una lingua “scotennata” e variopinta, una lingua disponibile all’errore, al fallimento, all’incomprensione, una lingua in cui le virgole smettono di essere virgole e divengono interpunzioni emotive, sequenziali, e in cui lo scherno e la sciagura propongono il medesimo racconto, abbastanza divertente, moltissimo pauroso.

 

La veglia: una stanza della morte, una donna forsennata che attende il corpo della figlia. Un corpo preteso e conteso col pubblico, che sarà un antagonista ideale, muto e terribile, detentore di qualsiasi decisione.

Carmela è una donna minuta, arcigna, tenera, è una lingua di fuoco e una bocca cannone che sputa odio e sarcasmo, prendendosi gioco della sintassi comune: una rivolta linguistica consapevole, un’invenzione costante: tutti segni di una disperazione composta, silenziosa, e anche sopita, messa a sedere davanti i telequiz, le telenovele, i documentari televisivi. Perché Carmela non parla da ventuno anni, chiusa nella sua stanza, protetta da un’immaginazione che adesso non le basta più. Per questo è uscita, per questo è lì, per questo tra un attimo riprenderà a parlare.

La veglia è uno spettacolo rabbioso, beffardo e struggente, in cui l’ironia e la disperazione confluiscono nel medesimo fallimento, quello di chi immagina un qualsivoglia buon senso.

La veglia è anche uno spettacolo sullo spettacolo dello spettacolo, quello mediatico, che ci ha resi tutti spettatori, persino di noi stessi.

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