MESSINA. Filippo e Diego hanno un rapporto antitetico con il mare. Il primo ama viverlo dall’esterno, osservarlo dall’ombra, pescare, e se rimane troppo tempo fermo a prendere la tintarella quasi si sente male; il secondo invece ama nuotare, per chilometri e chilometri, immergendosi ogni giorno in quelle acque gelide e sensuali che lo aiutano a tenere a freno la paura.

Filippo Nicosia, classe 1983, è uno scrittore messinese. Diego il personaggio e la voce narrante del suo libro “Un’invincibile estate” (Giunti, 2017), un romanzo di formazione che dipinge a tinte forti la vita di un ragazzo in una Messina al contempo magnifica e spietata.

 

 

Ambientato in un quartiere popolare della città, alle Case Gescal, dove è cresciuto suo nonno, il romanzo d’esordio di Filippo, fondatore della libreria Colapesce, a Piazza del Popolo, racconta le vicissitudini di un giovane orfano che ha perso da poco il padre violento e sanguigno, ma anche la sorte beffarda di una città di confine che è stata capace di privarsi del proprio affaccio sul mare.

Rimasto da solo nella modesta casa con vista sull’autostrada, Diego, nato la notte della strage di Capaci, trova un po’ di conforto nella lettura e nella cucina, in cui rivela ben presto un talento straordinario, finché, al funerale del padre, si presenta Giovanni, un giovane sfrontato e prepotente che gli sbatte in faccia una verità molto difficile da digerire. Intanto l’estate è arrivata, fregandosene dei morti e del dolore, e con lei arriva anche Martina, che travolge Diego con tutta l’ebbrezza e i dubbi del primo amore. E mentre il ragazzo nuota ogni giorno nelle acque gelide dello Stretto, cercando di tenere a bada la paura per le sfide che lo attendono, all’orizzonte si profila una scelta che potrebbe cambiare il suo futuro e portarlo lontano da quella terra così odiata. Ma anche così amata.

«L’idea del romanzo – racconta l’autore – è nata qualche anno fa, quando mi è capitato di “riconoscere” per la prima volta il più piccolo dei miei due fratelli, che ha dieci anni meno di me.  Quando a diciotto anni sono partito da Messina per frequentare l’università a Roma, mio fratello ne aveva appena otto, e non mi ero quasi accorto della sua presenza. Dieci anni dopo, seguendo la mia strada, si è trasferito nella capitale per studiare e per un anno e mezzo abbiamo vissuto insieme sotto lo stesso tetto. Lo spunto dell’opera nasce proprio da questa convivenza, dall’idea di una fratellanza e di un dialogo generazionale. Sebbene i personaggi del mio libro siano parecchio diversi da noi, ad accomunarci è questa costante necessità di andare e tornare che condiziona nel bene e nel male la vita di noi giovani del sud».

Sei partito, sei rimasto. Frasi che ognuno di noi sente ripetere costantemente e che rappresentano il filo rosso semantico di generazioni di messinesi costretti ad emigrare. Quell’essere “metà dentro e metà fuori”, come scrive l’autore sul suo blog, che è la condizione geografica ed esistenziale attorno alla quale si impernia la storia di Diego ma anche quella di tanti suoi conterranei figli di una terra di frontiera.

«Io ho capito la vera anima di Messina solo quando sono andato via»,  racconta Filippo, che la città dello Stretto l’ha lasciata appena maggiorenne, subito dopo la maturità al “La Farina”, per fare poi ritorno in Sicilia nel 2013, dopo tante esperienze nell’editoria indipendente e con in cantiere un progetto di libreria itinerante, “Pianissimo – libri sulla strada”, che lo ha portato per due anni in giro l’Italia prima di trasferirsi a Firenze, dove adesso vive con la sua compagna e la sua bambina. 

«La Messina che ho scoperto con la distanza – prosegue lo scrittore – è una terra piena di energia e di vitalità, che ha nella mancanza di ordine il suo più grande pregio ma anche il suo più grande difetto. È un’impressione che ho avvertito l’ultima volta che sono stato in città, durante una tappa alla Serit. C’era tanta  disorganizzazione e la fila era confusa, senza regole, eppure, in tutta quella caciara, ho avvertito il contatto con le persone e non ho provato quella sensazione alientante di essere solo un “numeretto” che a volte mi capita di provare quando sono al nord».

«Come hanno raccontato già D’Arrigo e Consolo, e Omero per primo, la città dello Stretto ha un patrimonio paesaggistico straordinario. Eppure – spiega Filippo – la sua è una storia piena di contraddizioni, quella di una città industriale che a un certo punto ha deciso di rinunciare alla sua vocazione marinara. Andare via è normale e a volte può servire per crescere e arricchirsi, ma non deve essere una migrazione forzata e unilaterale. Dobbiamo fare in modo che la città diventi nuovamente un crocevia, invogliando anche gli altri a venire qui da noi. Il mare, del resto, non è solo una componente poetica, ma anche e soprattutto una preziosa risorsa da sfruttare». Ed è proprio lì, dal mare, che per Filippo è necessario ricominciare, riappropriandoci innanzitutto della zona falcata e dell’affaccio a sud. Della nostra anima portuale. 

Così per Filippo e così anche per Diego, per il quale la riscoperta del mare negato, celato alla vista dalle fabbriche dismesse e dai cantieri, è una sorta di esperienza epifanica, una presa di coscienza che gli consente di trovare l’amore, all’ombra del Pilone di Torre Faro.  «Perché in fondo – conclude Filippo – il mare è democratico, ti toglie gli orpelli, ti mette a nudo, ti spoglia da tutte le differenze sociali».

 

 

(La foto in copertina è tratta dal blog Leggere a lume di candela)

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