Di Guglielmo Pispisa

Cosa c’è di più antimoderno di un poema in versi? Così si presenta l’ultima fatica letteraria di Dario Tomasello, Cronicario (Marsilio editore). Docente di Storia della Performance e del Teatro e Culture dell’Italia contemporanea presso l’Università di Messina, Tomasello qui però passa dall’altra parte della barricata, da critico accademico ad autore. Autore di una canzone, una ballata, una sorta di Ryme of the Ancient Mariner in versione strettese declinata in una lingua ostica, metaforica, metafisica, performativa in ogni suo aspetto. Una lingua che mette alla prova l’attenzione del lettore e la sua comprensione della narrazione – perché di narrazione si tratta – in un’epoca che invece fa di tutto per rendere il più possibile facile il compito ai sempre più sparuti e distratti lettori.

Nell’era della banalizzazione, della parcellizzazione del pensiero, che va offerto sempre in pillole, in monodosi di pronta digeribilità o di immediato rigurgito, ma comunque di rapida soluzione, perché non c’è mai tempo, di certo non per leggere, perché in fondo non gliene frega più niente a nessuno di stare su un testo, di goderselo, masticarlo, centellinarlo, di darsi il tempo di digerirlo, assimilarlo e di ragionarci, in quest’era Dario Tomasello va controcorrente, come spesso gli capita. E licenzia un testo suicida, perché richiede riflessione e concentrazione ed è dunque destinato all’oblio. Ma in fondo chi e cosa non lo è? E allora perché preoccuparsene? Saliamo sulla giostra, invece.

Saliamo sulla giostra di quest’invettiva satirica che prende di mira un microcosmo di nani e cagnolini sempre intenti a pisciare in giro per rivendicare il proprio territorio portata avanti da un testimone oculare.Visto che in una recensione, non si dovrebbe mai parlar troppo della storia in sé, diremo semplicemente, per dovere di cronaca, che il cronicario che viene descritto in queste pagine è o potrebbe essere un luogo di cura dove non si cura nessuno, e dove invece ogni patologia rimane quel che è o addirittura si acuisce. Oppure un luogo di formazione dove si generano frutti deformi e abominevoli. Di certo, di patologie interessanti variegate e grottesche, di veri e propri abomini ambiguamente attraenti, questo cronicario offre una scelta sconfinata. Nella immaginaria città di Giadida (che ricorda curiosamente un’altra a noi ben nota città dello Stretto), dove il cronicario ha sede, una città che assomiglia al suo nome, madida di umori venefici e trafitta di leggiadra bellezza troppo immobile, si consumano i destini di un gruppo di maschere, un consesso del quale fa parte anche il protagonista. Nani, ballerine, potenti piccoli piccoli dagli ego smisurati, buffoni di corte che si credono vascelli d’arte, tutti intenti a colludere e a pugnalarsi alla schiena.

Il valore aggiunto rispetto alla semplice narrazione sta però, come del resto deve essere in ogni componimento poetico, primariamente nella lingua, nella sua densità, nel suo ritmo, nel caleidoscopio rutilante nel quale i suoi mille colorati frammenti si compongono e si disfano e nuovamente si riavvicinano a configurare immagini sempre nuove e stupefacenti. Nel movimento vorticoso di questo strumento di luce e di violenza che è il linguaggio, Dario Tomasello ci offre il suo quadro semovente, un’immagine in perenne divenire. Un quadro di Arcimboldo in movimento, anzi in mutazione verso Jeronimus Bosch, o viceversa. Un giardino delle delizie che si muta in un vascone di frutta marcia, una gerbia ribollente di umori organici e forme grottesche e semiumane, un’orgia di colore e dolore in cui si mischiano silhouette a tutti note, anche a chi non le conosce, in quanto modelli universali.

Ma che forma ha, questa lingua, a cosa assomiglia? Diamo subito per scontato il debito brillantemente assolto, tanto quanto banalmente contratto, con Stefano D’Arrigo, che non può che essere nume tutelare di ogni poematica narrazione d’ambiente strettese. Il suo incedere incalzante e massimalista, il suo eccedere in densità di sintassi e di significati, di lessico alto e forme dialettali, la sua eleganza spuria, bastarda si ritrovano omaggiati in queste pagine, è quasi un’ovvietà per Dario Tomasello averlo fatto e per noi notarlo.

Meno ovvio e certo più sentito, più intimo e personale è il ricordo, delicato e insieme vibrante di Jolanda Insana, altra D’Arrighiana doc, peraltro. Si sente forte qui il murmure roco di Jolanda, il suo rombo baritonale, da tabagista accanita, amante estrema dell’unione sensuale dell’alto col basso, della rarefazione di parole sublimi e sensazioni terragne, maestra di minestra sabbaggia, come giustamente la ricorda Tomasello, e di arditezze linguistiche. Arditezze che l’autore non si nega mai, fino a farne ridondante e giocosa presenza e filo conduttore del narrato. Dario Tomasello opera quasi come in una osmosi lessicale, partendo da assonanze o accostamenti di senso fino a generare un flusso dal più denso al meno denso e ritorno, con ritmi variabili ma sempre sostenuti. Il ritmo è importantissimo nel suo versificare.

Abbiamo menzionato dei classici e ora arriviamo all’ordinario della modernità, perché il passo di quest’opera è indubbiamente anche quello dell’hip hop, che incatena senso e parole per legami di simpatia e rime o variazioni di senso attribuite allo stesso lemma, come spesso ad esempio, in Italia, fa Fabri Fibra e molti altri che Fibra ha influenzato. Il gusto insistito per il calembour, fino a farne vera e propria cifra stilistica, però, a mio avviso richiama soprattutto, sia pure con un più intenso spessore drammatico e una minore vocazione comica (presente comunque anche questa) le prove lussureggianti di uno dei più incredibili artisti della parola che la modernità ci abbia dato, fin troppo ignorato dalle vie maestre della letteratura, che è Stefano Bergonzoni. Così come in Bergonzoni i giochi di parole e gli spostamenti semantici sono tutti orientati a ottenere un effetto umoristico, avviluppandosi in un vorticoso nonsense che finisce con l’ubriacare lo spettatore/lettore, attirandolo come fa il coniglio con Alice in un pluricromatico, stralunato e divertentissimo mondo all’incontrario, nel quale si finisce col ridere fuori tempo tante sono le battute a cui ridere, similmente la tela linguistica tessuta da Tomasello avviluppa e ipnotizza il lettore inducendolo a guardare dentro un abisso molto meno divertente, per quanto per nulla serio, che è la miseria umana dei suoi protagonisti, e la vischiosa melassa ipocrita delle relazioni sociali e il soffocante, labirintico, angosciante percorso a spirale di un dovere sociale e professionale che si muove, avanti e indietro, tra servilismo e tracotanza in un percorso che non prevede mai pietà, mai umanità, ma solo crudeltà e scherno.

Forse potrebbe essere giusto questo il limite dell’opera, l’avere premuto il piede a tavoletta senza alcun ritegno sul pedale del disumano. Tomasello espone i suoi protagonisti senza pietà, non è prevista la pietà in una satira, e questo infatti li rende bozzetti a due dimensioni e non personaggi a tutto tondo, ma è una scelta di stile, di tono e di contenuti, semplicemente non vuole concedere loro la dignità di personaggio, e come tale è una scelta che va rispettata. Del resto, quando invece la tridimensionalità vuole concederla, Dario Tomasello sa bene come fare, in un tocco rapido che restituisce subito spessore di carne, sangue, dolore e ricordo alla sua rappresentazione. Basta avere riguardo, appunto, ai delicatissimi momenti riservati a Jolanda Insana, o alle memorie napoletane e infantili connesse all’ape regina, ai numi tutelari fantasmatici rappresentati dai personaggi di Claudio e Iman, o al finale addolorato ed elegiaco nel quale si legge e si vive tutto il sentimento dell’autore per Giadida, una terra e una realtà che potrebbe avere tutt’altra statura e considerazione, ma che rimane eternamente intrappolata in una coazione a ripetere il suo peggio, invece di ricercare e proporre il suo meglio. Che pure c’è, anche se ben nascosto.

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments