MESSINA. Anche quando non scende direttamente in campo, Cateno De Luca riesce ad ottenere inaspettate vittorie politiche, in questo caso inattese perché a servirgliele su un piatto d’argento è stata una concatenazione di cause piuttosto singolari. E’ successo ieri, col ritiro da parte dei proponenti (Antonella Russo e Felice Calabrò) della proposta di delibera che “obbligava” l’amministrazione a rivedere la composizione dei consigli d’amministrazione delle partecipate, riducendoli da tre (presidente e due consiglieri) al solo amministratore delegato.

Una proposta che, sulla carta, avrebbe dovuto riaffermare la centralità del consiglio comunale (a trazione Pd, in questo caso), ma che invece si è rivelata una Caporetto per i proponenti ed un altro successo incassato dal sindaco. Secondo un parere del segretario generale Rossana Carrubba, infatti, così com’era formulata, la delibera invadeva un campo sul quale il consiglio comunale non aveva alcuna giurisdizione, interpretando la legge Madia alla quale Russo e Calabrò si erano ispirati nella stesura della delibera.

Problema è che, a chiedere il parere e segnalare le incongruenze, è stato il gruppo consiliare di LiberaMe, che di fatto dovrebbe essere una costola del Pd e invece se ne sta sempre più allontanando, favorendo in questo caso l’amministrazione, dal punto di vista politico. Circostanza, questa, che ha provocato una frattura ancora più profonda di quanto non fosse già tra le due fazioni democratiche (e una frizione tra Calabrò e Nello Pergolizzi, primo firmatario della richiesta di parere, che una volta erano un “inseparabile duo”), con tanto di affermazione pesante da parte di Felice Calabrò sulla nuova maggioranza che il sindaco avrebbe nei fatti in aula.

Nel frattempo, De Luca, dal banco del sindaco, assisteva alla scena e non emetteva un fiato, lasciando che a sbrigarsela fossero i Democratici. A Calabrò ha risposto Alessandro Russo, piuttosto piccato, sostenendo in pratica che sulla legittimità degli atti non possono esserci maggioranze e opposizioni. In tutto questo, alla delibera originaria era stato apposto il parere favorevole da parte del ragioniere generale Giovanni Di Leo, sconfessato poi dal segretario generale, rendendo così ancora più complicato il tutto. Di fatto, se la delibera fosse stata tramutata in una di indirizzo (sostanzialmente un’indicazione non vincolante all’amministrazione), probabilmente ci sarebbe stata una maggioranza a votarla. Ma non è successo.

Quello che emerge è un Cateno De Luca paradossalmente rafforzato da quello che poteva essere invece il primo vero imbarazzo politico e invece si è rivelata una vittoria servita su un piatto d’argento. A tavolino, peraltro, perché nei fatti De Luca non si è esposto, almeno apparentemente: è rimasto seduto ad osservare quelli che sulla carta sarebbero i suoi avversari litigare tra loro (e che in fin dei conti si riducono a Calabrò, Russo e Gaetano Gennaro del Pd, ed i sette consiglieri a Cinque stelle). Ridendo dentro, probabilmente. Con un’espressione simile a quella del signor Burns quando si fregava le mani sussurrando “eccellente”.

 

 

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