Urge precisare che la relazione tecnico-sociologica che accompagna il precedente repertorio fotografico, ritraente le condizioni in cui vive una nutrita quantità di cittadini peloritani, non emerge da un attuale reportage, bensì essa è enucleata da “La situazione della classe operaia in Inghilterra” di Friedrich Engels: un’indagine sulle condizioni delle periferie britanniche del 1845, nella quale il filosofo-sociologo tedesco descrisse i sobborghi inglesi nell’epoca vittoriana. Il trattato fece un enorme scalpore in tutto il continente e ne scaturì il primo grande dibattito sulla salute pubblica e sulle condizioni di degrado in cui erano costretti a vivere i ceti meno abbienti nelle città europee.

A seguito del trattato di Engels, Sir Edwin Cadwick, un funzionario del governo inglese, nel 1847 pubblicò il “Report on the Sanitary Conditions of the labouring population og Great Britain”, sulla base del quale l’anno successivo (1848) l’Inghilterra emanò la prima legge sulla salute pubblica in Europa. Una legge che per la prima volta imponeva dei requisiti igienici per le case degli operai.  

La legge fu fortemente avversata dalla stampa britannica, istigata dall’influente cartello dei proprietari di immobili, i quali già danneggiati dalla concorrenza dei nascenti quartieri operai realizzati dallo Stato, vedevano ridursi drasticamente i proventi dei fitti dei loro tuguri, poiché obbligati a spendere soldi per bonificare palazzi e, in molti casi, interi quartieri per adeguarli alla nuova norma. Il giorno della pubblicazione della legge sull’Economist apparve un articolo polemico di matrice spacciatamente creazionista di cui qui di seguito si ripota l’incipit: “Sofferenza e disgrazia sono ammonimenti della natura: non saranno mai completamente eliminati e i tentativi impazienti e caritatevoli di bandirli dal mondo per via legislativa, hanno sempre prodotto più danni che benefici ”. Ma nonostante le accese polemiche e le forti pressioni degli speculatori la legge ebbe piena attuazione e tanto successo, al punto che l’Esposizione di Londra del 1851 (famosa per il Cristal Palace) riservò un settore espositivo alle nuove modalità costruttive e tipologiche delle case popolari derivanti della nuova legge sanitaria: camere da letto separate e quelle dei figli sorvegliabili dal soggiorno mentre la madre lavora, camere con ingresso autonomo. I muri in mattoni forati per ottenere una buona coibenza, solai in laterizio e ferro resistenti al fuoco, la copertura con pietra pomice coibente, controllo acustico, griglie di ventilazione per i ricambi d’aria, ecc..  Da quel momento l’innovazione nell’edilizia e nell’architettura si concentrarono principalmente sulla casa popolare. Al tema furono dedicate anche le esposizioni universali di Parigi del 1867 e del 1889. In occasione di quest’ultima si tenne il primo congresso internazionale per le abitazioni a buon mercato, in cui vennero puntualizzate le caratteristiche delle case popolari: vicinanza al luogo di lavoro (diretta o garantita da mezzi pubblici forniti dall’industriale o dal municipio), affitto commisurato al salario (non si doveva superare il sesto del salario), salubrità, meglio garantita con case separate o accoppiate dotate di orto-giardino, oppure anche da case collettive, che avessero degli schemi tali da comportare il “minimo contatto” fra gli abitanti (con disimpegni che dovevano essere in piena luce), dotazione di cucina e latrina interna, tre locali per ogni famiglia con più di tre persone (per consentire la separazione dei sessi); indipendenza assoluta del locatario e della sua famiglia.

Agli inizi del XX secolo in Europa appare la prima manualistica sulle case popolari. La vicenda europea degli alloggi popolari agli inizi del XX secolo conduce ad una nuova concezione tipologica dell’architettura residenziale. Nel 1901 il manuale “The Art of Building a Home” di Richard Barry Parker and Raymond Unwin diventa il riferimento, in tutto il continente, di una radicale e innovativa concezione dell’architettura: l’Architettura domestica per le classi lavoratrici, che caratterizzerà tutte le nuove città d’Europa mettendo in pratica le idee di Ebenezer Howard sulla creazione di ideali città giardino, sull’esempio di Letchworth Garden City del 1905, e di tutti gli utopisti del IXX secolo.

Questo fenomeno influenzò notevolmente l’Italia, dove la questione delle case popolari a cavallo dei due secoli fu uno dei problemi sociali più dibattuti. In quel periodo la politica e gli architetti ritenevano che la casa popolare fosse elemento determinante per integrazione sociale del proletariato.

Bisogna risolvere, annullare, cancellare l’esistenza dei quartieri infimi nelle grandi città, che rappresentano degrado civile e svantaggi socio-culturali a chi li vive……La vita di migliaia di famiglie si svolge in una promiscuità immorale.“ Queste le parole di Luigi Luzzati, giurista ed economista veneziano, deputato della destra storica, più volte ministro e presidente del Consiglio nel 1910, pronunciate in Parlamento nel 1902 durante la presentazione della prima legge sulle case economiche e popolari in Italia che porta il suo nome: “legge Luzzati”.

La legge 254 entrata in vigore il 31 maggio 1903 imponeva l’osservanza di tre principi generali nella realizzazione della “Casa dell’operaio”: 1) Essere vicina al posto di lavoro; 2) Avere un costo mite: La pigione non doveva superare 1/6 del salario; 3) Essere salubre. Essa prevedeva dei dispositivi che frenavano la speculazione dei costruttori come: l’obbligo di affittare ogni alloggio ad un prezzo inferiore a £ 100 ; la proibizione assoluta al proprietario dei suoli e al costruttore di abitare in tutto o in parte l’edificio; l’obbligo di realizzare cortili di ampiezza non inferiore ad 1/5 della superficie coperta dei fabbricati eretti ; l’obbligo di non costruire più di 3 piani oltre il P.T..

La nuova norma dettava principi, finalità e standard minimi di funzionalità da adottare nella nuova progettazione delle case popolari. Secondo queste misure la casa dell’operaio doveva: essere fornita di tutti gli elementi necessari allo svolgimento della vita fisica e morale, avere aria, luce, acqua, pulizia, difesa dalle intemperie, e tutte comodità essenziali che contribuiscono ad una serena vita famigliare e a distogliere dal vizio l’operaio e indurlo alla cura dei suoi doveri di cittadino e di capo famiglia; aiutare il miglioramento della sua salute fisica, morale ed intellettuale; ogni alloggio essere dotato di un numero di vani sufficiente al fine di non determinare occasioni di promiscuità igienica e morale.

La “legge Luzzati” era pienamente in vigore durante la ricostruzione della città di Messina dopo il sisma del 1908.  Ad essa si affianca il Regolamento Sulle Case Popolari contenuto nella legge n° 164 del 24 aprile 1904, che dettava prescrizioni esecutive, standard igienico sanitari e regolava aspetti di dettagli progettuali.

Alle norme si aggiunge la manualistica. L’architetto Effren Magrini nel 1905 pubblica “Le Abitazioni popolari”: il primo manuale sull’architettura economica e popolare nutrito di molte nuove tipologie edilizie e schemi ergonomici, alcune di raffinata architettura con articolate distribuzioni interne che saranno le stesse dei futuri villini signorili del liberty e del modernismo. Il manuale suggeriva gli standard minimi di abitabilità delle case dei lavoratori: “Il tipo di casa la più completa comprenderà: una cucina; una sala da pranzo; tre camere da letto; un granaio al di sopra delle camere da letto; un deposito di legna; una cantina; una latrina.”. Esso fu da subito il riferimento per tutti gli uffici tecnici dei comuni italiani e degli istituti delle case popolari. Così in tutta Italia, agli inizi del novecento, in applicazione della “legge Luzzati”, si costruirono, in tutte le città, case popolari bonificando aree urbane depresse e quartieri periferici degradati.

Qualche mese prima del tragico sisma che sconvolse la città di Messina venne emanato il R. D. del 27 Luglio 1908 con il quale si affidava ai Comuni e alle Province il compito di provvedere alla realizzazione di case economiche e popolari, dando loro la facoltà di conferire, eventualmente, tutto o parte dei finanziamenti a loro assegnati dallo Stato ad istituti autonomi.

Dalla “Relazione sulle case popolari in Italia” del 31 dicembre 1905, redatta dall’allora Ministero specifico, emerge che nel 1905 in tutta la penisola oltre ai comuni e alle province, per accelerare la costruzione di case economiche e popolari operavano: 108  Società cooperative per le case popolari; 10  Società di mutuo soccorso con (sezioni  per le case popolari); 6  Opere Pie con (sezioni per le case popolari); 3 Aziende Municipali per le case popolari; 3 Istituti autonomi per le case popolari. In tutto 130 istituti sparsi in tutte le province d’Italia più altri 30 in corso di costituzione.  Questo dato nel 1908 raggiunge 160 organismi dediti alla costruzione di edilizia economica. Solo 27 province erano prive di istituti per le case popolari: 2 al nord; 9 al centro, 16 al sud (tra queste Messina e Reggio Calabria).

Per affrontare la tragica emergenza il Governo emanò la L. 466 del 13 luglio 1910 che istituiva l’“Unione Messinese”: un istituto autonomo per la costruzione di case economiche e popolari da destinare ai sinistrati. Il Piano Borzì venne approvato il 31 dicembre del 1911 e dunque il nuovo istituto avrebbe dovuto operare alacremente realizzando case popolari a partire dal 1912.

Invece il nuovo istituto per le case popolari, in una contingenza così tragica restò infecondo fino al 1914 quando, con il pretesto del rischio di epidemie, venne emanata una legge speciale che imponeva lo sgombero immediato delle macerie gravando i proprietari dei suoli liberati ed edificabili dell’obbligo di dichiarare entro e non oltre sei mesi dall’avvenuto sgombero la loro disponibilità a costruire in proprio. Trascorso infruttuosamente il termine imposto dalla legge lo Stato avrebbe acquisito le aree edificabili, risarcendo i privati per il 75% del valore dell’immobile, al fine di procedere celermente all’attuazione del nuovo P.R.G., emettendo titoli di credito nominativi a società edilizie o ad altri beneficiari indicati dai titolari. All’uopo la stessa legge trasformò l’istituto autonomo Unione Messinese in un consorzio di proprietari di fabbricati colpiti dal sisma che non avevano la possibilità di costruire in proprio, denominandolo: Unione Edilizia Messinese”. Così il nuovo consorzio sarebbe stato il contenitore in cui versare i titoli di credito emersi dallo Stato per liquidare i proprietari inadempienti e dare loro la possibilità di costruirsi, altrove, in cooperativa una nuova casa. Ma l’Unione Edilizia Messinese con le sole risorse dei risarcimenti, riuscì ad aggiudicarsi pochi e marginali terreni edificabili, poiché la politica urbanistica generata dal nuovo piano di ricostruzione paradossalmente fece impennare le rendite fondiarie.

Ecco come la perversa gestione post terremoto ha lasciato campo libero all’iniziativa dei privati e di chi poteva anticipare ingenti capitali. Molti di questi speculatori usufruirono anche di mutui agevolati con piani d’ammortamento facilitati e in alcuni casi di finanziamenti a fondo perduto, con i quali costruirono alloggi che in seguito rivendettero in regime di libero mercato. Così in città giunsero dal nord molte imprese edilizie (filo governative) e banche a loro direttamente collegate. Le società private, vista la tipologia urbana del comparto prevista dal Piano Borzì, non avevano alcuna convenienza alla realizzazione di case popolari, anzi, erano obbligati a costruire palazzetti signorili. In questo scenario ci fu poco spazio per la realizzazione di case economiche e popolari, proprio quelle di cui si aveva un bisogno vitale. L’Unione Edilizia Messinese nel 1917, con il pretesto che urgeva un simile istituito a carattere nazionale che intervenisse nella ricostruzione della Marsica, ove nel 1915 vi era stato un altro fatale terremoto, venne trasformata, ancora una volta, in: Unione Edilizia Nazionale, facendola operare in tutta Italia e alleggerendo ancor più la sua operatività in riva allo Stretto. Notevoli furono gli interventi a Napoli e Roma nella costruzione di quartieri popolari come quello della Garbatella o del Testaccio.

Così dopo il sisma di case popolari non vi fu alcuna traccia, solo case economiche anch’esse tardivamente realizzate (e mai nel centro storico). Sorsero invece i Quartieri Ultra popolari caratterizzati dall’assemblaggio discutibile di casette inappropriate. Alloggi minimi le cui caratteristiche violavano ogni norma e legge sanitaria e antisismica: l’esatto opposto di tutto quanto dettava la “Legge Luzzati”. Aggregati urbani localizzati lontanissimo dal centro della città. In luoghi improbabili: sotto i ponti, al di là delle fiumare, dietro gli argini dei fiumi, all’ombra di rilievi, nelle vallate più recondite, nei diverticoli del territorio comunale, ecc.. Ambiti totalmente avulsi alla città, senza opere di urbanizzazione primaria, strade, fognature, acqua, ecc.  Una feroce asimmetria di trattamento in sfacciata violazione delle leggi e delle prassi vigenti in Italia sull’edilizia popolare.

Come si poteva pensare che queste unità immobiliari non venissero superfetate? Già dall’inizio, erano incongrue per difetto, oggettivamente inadatta. E con il passare del tempo, le necessità fisiologiche imposero la loro necessaria quanto irrazionale espansione, che occupò spazi comuni, strade, piazze, ecc.. Questi aggregati così mal progettati erano fatalmente condannati al degrado fisico, civile e morale, che inevitabilmente ha determinato in coloro che vi furono costretti ad abitare svantaggi socio-culturali nei quali attecchì ogni sorta di devianza. Così nacquero i quartieri malfamati della città, che prima del terremoto non c’erano. “È l’uomo la misura di tutte le cose” sosteneva Protagora: e quegli immobili erano incompatibili con l’anatomia umana, con la dimensione demografica dei nuclei famigliari insediati e con il loro sviluppo morale e civile.

Ecco come i messinesi superstiti furono scaraventati nel baratro del bisogno. Come finirono nelle baracche. Quello che altrove, proprio in quel contesto storico, era un nuovo diritto (la casa), ormai secolarizzato, riconosciuto ope legis e dal nuovo sentimento modernista spinto dalle avanguardie culturali che hanno segnato la civiltà del XX secolo, in riva allo Stretto divenne un favore, che da oltre 100 anni non è ancora ricambiato.

Così non fu nella dirimpettaia Reggio Calabria, dove operò alacre l’Ente Edilizio Reggio Calabria (omologo dell’Unione Messinese), voluto dall’onorevole reggino Giuseppe De Nava che fece condurre la costruzione delle case popolari ad un giovane ingegnere bolognese, funzionario del Genio Civile, tale Gino Zani: uno dei massimi esperti di edilizia popolare, inventore di tipologie edilizie economiche adottate in tutta la penisola.

Questa è la storia tecnica delle baracche! Una delle pagine più nere della storia d’Italia.

Nondimeno, come si evince dall’attuale repertorio fotografico sopraesposto, a Messina il diritto alla casa ha trovato una notte lunga oltre un secolo e ancora l’alba della civiltà e della giustizia tarda a venire.

 

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments