Ai Mondiali del 1990 avevo appena sette anni e il calcio non sapevo nemmeno cosa fosse. Come ogni anno trascorrevo l’estate a Montalbano, a casa dei nonni. Mesi e mesi di totale libertà. Con gli amichetti uscivamo da casa la mattina presto e ci perdevamo fra le vinelle e le campagne, incuriositi da quel mondo tutto da scoprire che ancora non aveva nomi. Ricordo le scorpacciate di gelsi, i lunghi giri in bicicletta, le ginocchia sbucciate, il mercuriocromo, le notti in cui si restava svegli per fare le bottiglie, la merenda col gelato che costava 1000 lire, le sere fresche e profumate trascorse davanti casa, a fare giochi idioti, mentre mia nonna seduta sul “furrizzo” giocava a carte con le vicine e il tempo scorreva lento, senza fretta, che tanto che fretta c’era. Non finivano mai le giornate.

I mondiali scombussolarono quella monotonia in un modo, per me, del tutto inaspettato. Un sabato mio padre portò da Messina una bandiera dell’Italia. Rossa, bianca e verde, col faccione di un tizio dagli occhi spiritati al centro. Totò Schillaci, si chiamava quel tizio.

La sera guardavamo le partite tutti assieme sulla tv a tubo catodico che sembrava un megalite. Con noi c’era pure mio nonno, che di solito andava a letto come le galline, subito dopo cena. Si sedeva in un angolo della stanza con la coppola in testa e restava a guardare quello spettacolo che non capiva, senza dire una parola. Non parlava mai, mio nonno.

C’era nell’aria una gioia strana. Ricordo le urla, gli abbracci, l’atmosfera che si respirava in paese. Non si parlava d’altro, in piazza, con quel nome tanto familiare che rimbalzava di bocca in bocca e di balcone in balcone e di bar in bar, pronunciato da vecchie e bambini con un sussulto d’orgoglio: “Totò”.

La cosa più bella era il post partita, quando decine di macchine strombazzavano coi clacson per le strade, con le bandiere brandite al vento, le voci sguaiate e in sottofondo quella canzone che cantavamo anche noi bambini, tutti in coro, inseguendo un gol sotto il cielo di quell’estate italiana. Erano le notti magiche. E noi lo sapevamo.

Quando perdemmo con l’Argentina fu quella la cosa che mi fece più male. “Ma oggi le macchine non passano?”, chiesi a mio padre. “No, abbiamo perso”, mi disse lui.
“E non possono passare lo stesso?”.

Fu quella l’estate in cui mi innamorai del
calcio, ascoltando i discorsi degli adulti che parlavano di cose da adulti: l’uscita di Zenga su Caniggia, i dribbling di Baggio, i fischi dell’Olimpico a Maradona. E poi c’era lui, Schillaci, Totò, vanto di Messina e della Sicilia intera.

Oggi che è morto ripenso a quei giorni, alla dignità di mio nonno e alle mani rugose di mia nonna, che aveva la sesta elementare ed era buona come il pane.

Questo fanno gli eroi: ti marchiano la vita. Anche se non li conosci, anche se di mestiere danno solo calci a un pallone.

(Foto tratta da ilmessaggero.it)

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