Proviamo, così per gioco, a modificare aggiornandolo un aureo passo di Carlo Marx tratto dall’Ideologia Tedesca:

“Le narrazioni della classe dominante sono in ogni epoca le narrazioni dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le narrazioni di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le narrazioni dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come narrazioni: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le narrazioni del suo dominio…”.

Se al termine “idee” sostituiamo “narrazioni” ci rendiamo conto di come, nel generale flusso comunicativo nel quale siamo oggi immersi e che ci avvolge come placenta, sia ormai regola invalsa e da tutti subìta quella di scambiare la realtà con le sue innumerevoli e assai spesso fallaci rappresentazioni.

Pressoché tutti i solerti analizzatori del collasso ecologico planetario attribuiscono i disastri che abbiamo sotto gli occhi (sempre che questi li teniamo ben aperti) al sovraffollamento del pianeta e all’eccesso di consumismo.

Breve digressione. Parlavo di occhi ben aperti e non tappati di sterco come molti sono abituati a tenerli. Quel frescone di Vittorio Feltri ad esempio non fa altro che strepitare contro Greta e tutti quelli che ai suoi occhi sono dei poveri apocalittici mancati. A questo meschino sfugge che dal 1970 ad oggi in tutto il mondo la fauna selvatica sia diminuita del 60% (Rapporto Living Planet del WWF), che ormai la plastica sia divenuta uno degli ingredienti alimentari della fauna ittica. Questa rara specie di giornalista in estinzione ignora altresì che proprio in questi giorni la temperatura dell’Antartide ha superato i venti gradi. Venti gradi! Con pinguini, foche, gabbiani, balene, orche, orse e otarie ormai tutti costretti a farsi i climatizzatori in casa…… 

Torniamo a cose serie. Dicevo che la narrazione dominante ci fa credere che tutto lo sconvolgimento planetario abbia come responsabili l’eccessivo numero di umani che popolano la terra e la loro abitudine di consumare.

Ma l’uomo da che mondo è mondo ha sempre consumato le risorse del pianeta per vivere e sopravvivere a se stesso come specie! Non occorre essere demografi per condividere tale dato. Il problema allora non è quello del consumo, né quello del numero di abitanti. Si tratta piuttosto di esaminare quale tipo di consumo venga oggi praticato, e a beneficio di quale categoria di abitanti.

Il problema reale, cari amici, ha un solo nome. Capitalismo. Una parola che viene raramente pronunciata, anche nelle analisi più serie e approfondite sul collasso del pianeta, un collasso che il WWF nel citato Living Planet Report a più riprese ha denunciato, rilevando che ci troviamo in una condizione di “recessione ecologica”, in quanto l’eccessivo consumo delle risorse (un terzo in più di quelle disponibili) ci conduce fatalmente verso un debito ecologico destinato a tramutarsi in una scomparsa lenta ma irreversibile della nostra civiltà.

Pare che pochi al mondo se ne stiano accorgendo, qualche scienziato, la oltremodo aborrita Greta e il nostro commovente Papa Francesco, combattuto da alcuni idioti in quanto ritenuto “comunista” per il solo fatto di indicare nel capitalismo la causa principale, anzi unica, dell’alterazione dei ritmi naturali in un pianeta altrimenti meraviglioso.

È il capitalismo a determinare il tipo di consumo che si pratica nel pianeta e al contempo la perimetrazione dell’ambito di chi ha il diritto di beneficiarne. L’Occidente e l’Oriente capitalistici, neo-liberistici o come caspita li si voglia definire, seguono ormai le regole di una globalizzazione dei consumi cui non si accompagna la globalizzazione dei diritti, delle libertà, della facoltà per gli ultimi di autodeterminarsi.

Già, gli ultimi. Ormai siamo abituati a considerarli quasi una categoria metastorica, come nell’antichità, quando Aristotele sosteneva che “un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo” e la povertà, la condizione di paria, si riteneva fossero state stabilite da un destino cieco e crudele. 

Agli ultimi avevo già dedicato un paio di anni fa alcune riflessioni. Adesso che questo mondo si trasforma sempre più rapidamente in una sorta di Torre di Babele, in cui riesce sempre più difficile sillabare un discorso elementarmente umano, ho l’impressione che “ultimi” siamo ormai divenuti tutti, ammaliati da una coazione a permanere ognuno nel rispettivo stato di avidità, egoismo, ferocia, paura, pigrizia, disperazione, solitudine…

Già sessant’anni or sono Claude Lévi-Strauss aveva messo in dubbio la concezione unilineare e progressiva dello sviluppo delle civiltà. Circa un decennio più tardi, in Italia, Pier Paolo Pasolini, nella forma poetica che gli era propria, contestava l’identificazione tra “sviluppo” e “progresso”, segnalando profeticamente come la società dei consumi avrebbe sortito – come poi è di fatto avvenuto – quella devastante “scomparsa delle lucciole” che ha progressivamente impoverito gli orizzonti naturali e culturali dei nostri angoli di mondo, facendo smarrire le identità locali e producendo una perniciosa mutazione antropologica che ha arrecato danni alla qualità della vita e ai rapporti delle comunità con gli ecosistemi in cui esse sono inserite.

I moderni critici del consumismo e teorizzatori della decrescita felice (Nicholas Georgescu-Roegen, Serge Latouche, Cornelius Castoriadis, Jeremy Rifkin, Zygmunt Bauman e, qui in Italia, Maurizio Pallante), epigoni di quei lontani testimoni che hanno pionieristicamente avviato un processo di demitizzazione dello sviluppo fine a se stesso, partono proprio dalla considerazione che non ci sia rapporto di conseguenza tra crescita economica e benessere, e che anzi il consumo (o, meglio, il suo eccesso) conduce al peggioramento della qualità dell’esistenza degli uomini e della vita dell’intero pianeta. Ora, ad imporre un modello di consumo forzoso, illimitato, spregiatore dei guasti che provoca, indifferente agli esiti della propria logica che vedono i (pochi) ricchi farsi sempre più ricchi e i (molti) poveri sempre più impoverirsi, è proprio il modello capitalistico ormai affermatosi anche nei paesi del socialismo reale di un tempo. Un capitalismo che trova puntelli ideologici e politici nelle idee e nelle politiche dei vari Trump, Bolsonaro, e via discendendo fino ai loro macchiettistici epigoni locali come i nostri soliti noti, i cui nomi per decenza vengono qui omessi.  

Gran parte (si calcola tra la metà e il 90%) della deforestazione delle foreste tropicali del nostro pianeta è in mano alla criminalità organizzata. Di fronte a tale realtà rischiano di vanificarsi tutti gli sforzi della comunità mondiale contro i cambiamenti climatici, e appaiono sempre più improbabili le forme di tutela florifaunistica e la lotta stessa contro la povertà pur meritoriamente intraprese dagli organismi più consapevoli dei Governi nazionali. A lanciare tale allarme è un rapporto di pochi anni fa del programma Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme) e dell’Interpol.

Che percezione abbiamo del mondo che abitiamo? Di una landa desolata in cui, per volere di un dio malevolo, siamo stati scagliati? O, viceversa, di un paradiso donatoci perché insieme ad altri organismi (viventi e non) potessimo coesistere, rendendolo sempre più “domestico”, accogliente, buono da abitare e buono da pensare?

Com’è evidente, il problema ambientale è divenuto oggi sempre più cruciale per la definizione della qualità di vita di ognuno di noi, nella misura in cui – nel corso dell’ultimo secolo ma in modo dirompente negli ultimi decenni – si è consolidato il rapporto conflittuale tra le attività umane cui sia sottesa una logica di profitto e l’ambiente, l’ecosistema che come una rete immateriale ci tiene tutti insieme, uomini animali e piante.

Se dalla preistoria in poi l’uomo ha avvertito l’esigenza di adattare l’ambiente al fine di renderlo più accogliente e sicuro, è però solo con l’avvento dello spirito capitalistico che si è prodotta la fatale accelerazione che ha finito col porre a rischio l’intero sistema di cui anche noi umani siamo parte integrante.

L’inquinamento, il buco nell’ozono, l’effetto serra, le piogge acide sono i fenomeni più macroscopici, che minacciano la tenuta del sistema a livello planetario. Ad essi si accompagnano, e ci interpellano ancor più drammaticamente, le carestie, le guerre fratricide, gli imponenti flussi migratori determinati da scompensi socio-politici in ultima analisi riconducibili a un’aggressiva prassi di sfruttamento dei suoli, delle risorse, dei corpi la cui matrice ha un solo nome. Capitalismo.

“Fare pace con il pianeta” è dunque un compito che concerne per un verso ambiti che toccano la nostra quotidianità, le nostre giornate storiche, i nostri costumi, le nostre più pervicaci e intime tare di gente assuefatta all’opulenza e per nulla disposta a sacrificare un briciolo del benessere di cui si ammanta per garantire un equilibrio più umano dei luoghi e delle realtà animate che li abitano.

Per altro verso, “fare pace con il pianeta” comporta recuperare uno sguardo nuovo sulle cose, sullo scacchiere mondiale che ci sta dinanzi, sulle forze palesi e occulte che dominano l’economia e la finanza e determinano i destini di intere società. Acquisire inoltre una nuova consapevolezza sulle conseguenze della nostra boria, sulle false narrazioni di una crescita illimitata che dovrebbe ormai apparirci in tutti i suoi aspetti grotteschi e mistificanti.

Il rispetto della natura e delle forme di vita che la abitano, la ripulsa verso ogni disboscamento, ogni cementificazione, ogni spreco, ogni uso improprio delle risorse naturali. Verso ogni forma di sfruttamento e prevaricazione dell’uomo sull’uomo, tutto ciò dovrebbe far parte del corredo elementarmente umano di tutti quanti intendano vivere – e non vivacchiare – da esseri liberi.

Donne e uomini magari non in grado di ribaltare la situazione, ai quali è però demandato il compito di avere contezza e tramandare memoria (Fahrenheit 451 insegna!) del reale nemico cui occorrerà dar battaglia, un nemico costituito non dalle masse disperate, dall’Africa al Bangladesh, sterminate da siccità, inondazioni o malattie, ma dal sistema perverso che vede nel profitto e nella crescita gli unici motori della storia.

Per non concludere in modo sconsolato, prendo in prestito da un profeta dei nostri tempi parole di speranza:

“Non potranno mentire in eterno.
Dovranno pur rispondere,
prima o poi,
alla ragione con la ragione,
alle idee con le idee,
al sentimento col sentimento.
E allora taceranno:
il loro castello di ricatti,
di violenze, di menzogne
crollerà”.

(Pier Paolo Pasolini)

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments