La retorica del pilone e dell’arancino

 

Qualcuno, prima o poi, dovrà prendersi la briga di elencare gli irreparabili danni che al messinese ha arrecato la bellezza di Messina, una città paesaggisticamente pregevole che si è fatto di tutto per imbruttire, un territorio dalla vivibilità potenziale invidiabile al quale si è tolto l’ossigeno e ogni possibilità di campare dignitosamente.

Perché è quando bisogna lottare contro la natura ostile per strappare la sopravvivenza che l’ingegno si aguzza e si mettono in moto muscoli e neuroni. Ma se hai la fortuna di essere nato in un posto in cui c’è il mare, il sole 350 giorni all’anno, lo Stretto visto dal pilone, che sembra di poter abbracciare la calabria, la brezza che ti culla e ogni angolo sembra disegnato apposta per renderti la cassa toracica troppo stretta rispetto a quanto si allarga il cuore, ecco, tutti questi problemi non te li poni.

Eccola, quindi, la fonte di tanti problemi dei messinesi: il dare per scontato che tutto sia dovuto senza mai sforzarsi per ottenerlo, il ritenere che non sia necessario ingegnarsi e faticare per andare avanti, la pressoché assenza di qualsiasi impulso al miglioramento. Perché quello che la natura ha dato, il messinese l’ha tolto, spazzato via con accanimento chirurgico.

E per riaffermare un vanto, è ricorso all’arancino. Perché a noi tutto puoi togliere, ma non l’arancino: non una pietanza, ma un paradigma di vita. Non c’è lavoro, il traffico si mangia due ore delle nostre giornate, per togliere la frana dall’autostrada non bastano tre anni e mezzo? Pazienza. Noi abbiamo l’arancino. E voi no. E che nessuno si azzardi a chiamarla arancina, ché potrebbe scoppiare una guerra civile, mentre nel resto del mondo ci guardano con divertita curiosità, domandandosi com’è che questa sia una cosa importante su cui accapigliarsi e discutere allo sfinimento, come se non avessimo altri cazzi (un po’ più importanti) per la testa.

L’augurio per il 2019? Che si possa diventare – per assurdo – un posto un po’ più tristanzuolo, un po’ più svizzero. Grigio, disciplinato, senza la bellezza alla quale non facciamo più caso, senza arancino (cioè, non senza senza, ecco facciamo non proprio sempre). Così, per vedere l’effetto che fa. E se per caso non cambi qualcosa.

 

 

 

 

La lissa

 

Prendi un uomo, togli da lui tutte le azioni e otterrai lo stereotipo del messinese: il cittadino medio che ritiene socialmente sconveniente impegnarsi a portare a compimento qualsiasi cosa, anche l’impegnarsi, persino l’atto stesso di campare.

Perché è un atto, e bisogna sforzarsi per portarlo a compimento. E quindi si lascia sopravvivere. Fa qualcosa, ma con le mani in tasca, di malavoglia. Rimane tiepido quando potrebbe e dovrebbe entusiasmarsi e guarda con sospetto chi lo fa. Ma anche chi ce la fa. È l’atto del fare che lo destabilizza, gli leva il terreno sotto i piedi, mette in crisi la sua visione esistenziale, e in ultima analisi lo rende sospettoso nei confronti di chiunque dimostri vitalità, nel senso grammaticale dell’essere vivo.

Quella che in italiano si chiama accidia, ma che nell’accezione messinese non solo non arriva a diventare un poetico e decadente taedium vitae, ma anzi gli aggiunge sciatteria, pressappochismo, malavoglia e ammanta tutto con uno spesso strato di “futtitinni”.

In pochi altri posti al mondo si riesce a vivere la vita svuotandola completamente delle azioni. E infatti è strano che sulla carta la città sia ultracattolica, perché probabilmente sarebbe più corretto seguisse i dettami dell’induismo, visto che a queste latitudini il bramino che medita guardandosi crescere la lanugine dentro l’ombelico è paradigma di vita, nozione dottrinale. Non faccio, quindi sono. Il vivere per sottrazione.

Il ritmico trasformare ossigeno in anidride carbonica, e ritenere che sia sufficiente a chiamarla vita.

 

 

 

La zampogna come orizzonte culturale

 

Non lo strumento musicale in sé, meglio specificarlo subito, ma la metafora di un clima culturale stantio, a tratti squallido, senza dubbio riflesso della politica che amministra e ha amministrato Messina. Sia chiaro: siamo tutti d’accordo sull’importanza del recupero delle tradizioni culturali locali, ma non sull’eccesso di ostentazione. Come in ogni latitudine ed epoca, il governo si deve servire della cultura per orientare le masse, e così quello strumento prima legato al clima natalizio fatto di presepi e di ambienti ovattati di festa è stato eletto a unico simbolo culturale per messinesi troppo fieri di aver“riscoperto” con la zampogna una identità da piccolo borgo che ricorda un po’ troppo Fiumedinisi e affini. (Che poi sorge spontanea la domanda: dov’erano nascosti gli zampognari finora? Hanno fatto tutti un corso last minute per apprendere l’uso della ciaramedda?).

Da sei mesi a questa parte si è assistito all’assottigliarsi sempre più rapido della linea di confine fra ciò che può essere elevato a iniziativa culturale e ciò che dovrebbe rimanere iniziativa di piazzetta di quartiere. Un esempio su tutti, l’esibizione dei neomelodici in un Palacultura dove, però, la GAMM resta ancora sconosciuta ai più.

La categoria “arte” è stata confusa con quella di “folclore”, che ha saturato lo spazio culturale tagliando fuori tutto il resto: teatri off (Clan Off Teatro, Teatro dei 3 Mestieri, giusto per citar qualcuno), band locali, artisti e scrittori messinesi la cui arte ha respiro nazionale e internazionale, ma non uno spazio di esibizione in città. In un panorama cittadino in cui, del resto, il Teatro Vittorio Emanuele non ha più una programmazione triennale del cartellone di spettacoli, per le risorse esigue risorse, non stupisce, quindi, che la “sicilianità” sia diventata l’unico riferimento artistico.

E se questa rappresenta per la nona città metropolitana italiana la resa al “progresso” culturale e la castrazione di sé rispetto all’europeità culturale di cui la città dovrebbe abbeverarsi, beh, meglio che la zampogna rimanga tra i ricordi del 2018.

 

 

 

Lo Shuttle (e le scelte “di pancia” e non “di testa”)

 

Con un nome che vuol dire tutto e niente, lo Shuttle è stato metafora di come il cambiamento cercato a tutti i costi per rinnegare il passato sia come la gatta frettolosa che fa i gattini ciechi. Il nuovo piano di trasporti degli autobus, insieme all’annuncio elettorale dello smantellamento della linea tranviaria, è stato un enorme bluff costellato da continui passi indietro (l’ultimo sugli interinali), smentite e rimodulazioni dei percorsi che, alla fine, a parte i numeri delle vetture, poco o niente ha cambiato rispetto ai vecchi tragitti.

Che prima dell’inaugurazione del nuovo piano di trasporti la città stesse ricominciando a nutrire una certa fiducia rispetto all’Atm è un dato confermato dalla crescita del numero di utenti che giornalmente avevano ricominciato a usufruire del servizio pubblico. Con il “viaggio nello spazio”, introdotto dalla nuova amministrazione, invece, sono aumentate vertiginosamente le persone che son tornate alle “vecchie abitudini”. E, del resto, non bisogna essere nemmeno troppo studiati per capire che dietro l’apparente fretta di rimodulare l’azienda di trasporto pubblico alla luce di una riduzione di spesa senza danni per il servizio, c’era anche la ricerca di una giustificazione alla ventilata ipotesi (poi smentita da sindaco e consiglio comunale) di privatizzare la società partecipata, covata ben prima di avere i bilanci alla mano o di conoscere la situazione economica di una azienda la cui ricrescita aveva bisogno di tempo, viste le condizioni in cui era stata lasciata nel 2013.

Su Atm e MessinaServizi, del resto, si è sempre giocata la partita della resistenza di tutte le amministrazioni che si sono succedute in città. E anche in questo caso l’azienda di trasporto pubblico è stata il campo di battaglia su cui l’amministrazione De Luca ha giocato una carta importante uscendone, in ultima analisi, vittoriosa. Poco importa, poi, se fra corse saltate, orari non rispettati e modifiche continue, l’ “Odissea nello spazio” sia una realtà tutta messinese che i messinesi tollerano e tollereranno, comunque, in silenzio e a testa bassa.

Succede, quando le scelte vengono fatte con la pancia e non con la testa.

 

 

Facebook

 

Rispettando un trend nazionale di politici che hanno conquistato le poltrone del Parlamento grazie ad una efficace comunicazione social, anche Messina si è trovata soprattutto nel 2018 a confrontarsi con gli effetti della campagna elettorale 2.0 tutta link, post e condivisioni.

L’inflazione di pagine Facebook, di motivatori politici pagati e di post a qualsiasi ora del giorno e della notte sono diventati la cartina di tornasole di una “piazza” che, lontana anni luce, nei tempi e nella sostanza, dalla cara vecchia “agorà” greca, è apparente strumento di espressione democratica.

Così non c’è da stupirsi della vittoria alle amministrative del 2018 di Cateno De Luca, sicuramente il più grande leone da tastiera che la città dello Stretto abbia mai visto: bastava contare il numero di condivisioni dei suoi post, o gli spettatori in diretta che lo hanno seguito nel corso dei mesi – nettamente inferiori quelli che dopo sei mesi continuano a presenziare a ogni suo streaming – per sapere quale sarebbe stato l’esito delle elezioni.

La deprimente mancanza di qualsiasi dibattito politico, poi, si manifesta in questioni banali o di lana caprina che diventano improvvisamente di vitale importanza per tutti. Valga come esempio fra tutti quello dell’isola pedonale natalizia. Per la chiusura di nemmeno un chilometro di strada la feroce divisione di guelfi e ghibellini ogni anno rimane l’appuntamento fisso prenatalizio che scatena prurito ai pollici dei messinesi che si scatenano in battaglie social pro o contro la pedonalizzazione natalizia di via dei Mille. Peccato però che il “leone da tastiera” tipo della città dello Stretto, applaudendo oggi a un mito, domani a un altro, rimanga comunque completamente avulso rispetto alla sua realtà circostante. La soluzione poi è sempre una: la colpa è di chi amministra, al di là del nome, del colore politico o della casacca.

E quando il dibattito, qualunque sia l’argomento inizia e finisce all’insegna del “‘u pisci feti da testa“, non c’è da attendersi niente di buono

 

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