Lo spirito battagliero di Cateno De Luca

 

Un desiderio che tutti i messinesi dovrebbero covare per il 2019, sia che l’abbiano votato che non vogliano vederlo nemmeno in cartolina, è quello di vedere di nuovo Cateno De Luca in mutande. Il sindaco di Messina, in altre vesti, ha sempre dimostrato di non avere grossi timori reverenziali, di dire pane al pane, di intraprendere iniziative non esattamente ortodosse quando immaginava servisse un gesto di rottura per smuovere le acque.

Così come era successo anche al predecessore Renato Accorinti, però, lo spirito incendiario col quale hanno varcato la soglia di Palazzo Zanca nel breve istante che intercorre dall’essere candidato rivoluzionario al diventare primo cittadino istituzionale, è stato soppiantato da un pragmatismo da pompiere.

Sarebbe bello se, nel 2019, De Luca rivendicasse per esempio i fondi che spettano alla città per mettere finalmente un punto allo schifo delle baracche con un gesto eclatante verso chi di dovere. Sarebbe bello che la restaurazione che piano piano ha preso piede insieme al radicamento nel palazzo, fosse per un attimo soppiantata da quell’attitudine situazionista che nel passato lo ha portato a cantarle forte all’Ars, al pinocchio in una mano e la bibbia nell’altra, avvolto dalla bandiera si ciliana, alla bara portata in processione a Roma davanti al ministero delle Infrastrutture per sostenere la causa del ponte, al “libro bianco” in cui spiattellava anni di malaffare all’assemblea regionale siciliana.

Vale per le baracche così come per le scuole, per la Zes come per il piano di riequilibrio, per le infrastrutture come per i fondi al teatro, per l’autostrada come per la zona falcata. Vale per tutto quello che ritiene spetti di diritto alla città che è stato chiamato (con grosse aspettative da parte dei suoi elettori) ad amministrare.

Giusto per non dare ragione a Karl Marx, secondo il quale la storia si ripete sempre, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa.

 

 

 

 

Capacity (e la capacità di fare rete)

 

Nove messinesi su dieci di Capacity conoscono solo l’ultima fase, quella in cui beneficiari ricevono le chiavi di casa da un sorridente cateno De Luca e abbandonano per sempre le baracche. Il che già sarebbe un deciso passo in avanti rispetto alla media della palude amministrativa in cui affoga sempre più la città. Capacity, però, è molto di più. È un efficace esempio di continuità amministrativa, in cui l’attuale sindaco prosegue nel solco tracciato dalla precedente amministrazione, riconoscendo la bontà della programmazione. È un ente pubblico che porta avanti un progetto fondamentale grazie a cofinanziamento e coprogrammazione privata. È una responsabilizzazione del beneficiario, che contribuisce con il 25% dell’importo finale o in denaro o valorizzando economicamente il proprio lavoro.

È, in una parola, fare rete.

Quello che, tranne rari e pregevoli casi, a Messina si fatica a comprendere. Qui siamo tutte monadi. Mai insieme. Solo tanti piccoli orticelli. E guai a chi ce lo tocca, il nostro piccolo orticello. In riva allo Stretto si campa da soli, di nascosto, “a mucciuni i ddiu”. E da soli si ha il successo, se si ha. Solo la sconfitta è pluralistica.

Ho fallito? Colpa della società, delle circostanze, dell’invidia. Ci sono riuscito? Merito mio. Ma che non si sappia troppo in giro. Perché è meglio continuare a credere che “a Messina non si può fare niente”. È comodo, è autoassolutorio, è pure consolante. E, fino ad oggi, tristemente vero, nella maggior parte dei casi. Fino ad oggi. Chissà nel 2019.

 

 

 

Il coraggio e la voglia di accogliere

 

Messina città di passaggio e di frontiera non è venuta meno all’impegno di mostrare la sua faccia migliore quando si è trattato di mettere in moto, con umanità e scrupolo, la macchina dell’accoglienza verso i migranti. Nonostante la xenofobia e il razzismo stiano dilagando su scala nazionale, con episodi di violenza diffusi da nord a sud, Messina ha riconfermato, invece, di possedere un’anima buona e di andare in controtendenza rispetto all’andamento nazionale generale.

A dirlo non è soltanto la quotidianità, in cui a parte l’intimidazione al centro d’accoglienza all’ex hotel Liberty non ci sono stati mai atti concreti di violenza fisica, ma i dati e le analisi che mettono a confronto la gestione dell’accoglienza in tutta Italia. Non è un caso se, nel 2017, a fronte di un’escalation di intolleranza, distribuita a macchia di leopardo su tutto lo Stivale, Messina fra le città medio-grandi è stato il luogo in cui negli ultimi tre anni non si sono registrati reati a sfondo razziale, a testimonianza ancora una volta di quanto Messina sia una terra migliore di come la si racconti. 

Lungi dal voler poi mettersi “i prosciutti davanti agli occhi” rispetto alle realtà interne agli hotspot, e senza voler esprimere alcun giudizio riguardo le logiche politiche che stanno governando tutta la nazione, ai messinesi il plauso di rendere la vita degli altri non un momento di passaggio ma di permanenza, nel segno del rispetto dello “straniero” e di una sua proficua integrazione.

 

 

 

Il Retronouveau (e chi fa della passione un mestiere)

 

C’è un posto a Messina, non l’unico ovviamente, che è la perfetta dimostrazione di come si possa trasformare una passione in un mestiere, riuscire a portarlo avanti e contribuire all’arricchimento (culturale, in questo caso) di una città. Il Retronouveau è una specie di oasi nella desertificazione artistica  del territorio: un piccolo club della provincia del sud Italia, quindi svantaggiato per cento e un motivo, che negli anni è riuscito ad affermarsi come una delle realtà più vive e coriacee, riuscendo a diventare tappa obbligata di artisti che arrivano dalla Germania, dagli Stati Uniti, persino dal Giappone.

Un percorso costruito con tenacia e coerenza (non solo dal Retronouveau: c’è l’Officina, c’è l’Omd, ci sono teatri e compagnie indipendenti a decine) che oggi paga. Da ottobre ad oggi, un cartellone di concerti impressionante, che davvero non ha nulla da invidiare ai club nordeuropei, ottenuto tra l’altro senza mai strizzare l’occhio alla moda del momento o indulgere nella via più breve.

Se Messina oggi è una città che dal punto musicale può dire la sua, svestendosi dai panni di veloce passaggio nel tragitto verso Catania o Palermo, è anche grazie a realtà come il Retronouveau. Il segno tangibile che è possibile uscire dalla dimensione di provincialismo che ci si attacca addosso come una remora allo squalo. Servono passione, sudore, obiettivi chiari, capacità di mettersi in gioco (e di non piangersi addosso). E un sogno. Quello di diventare una città che guarda avanti, e molto, molto più in là dei suoi confini.

 

 

 

 

Le eccellenze (nella speranza che tornino)

 

Competenze globali e voglia di fare, qualità e capacità: il numero di messinesi che si sono contraddistinti in Italia e all’estero per essere eccellenze nei settori più svariati è sempre più in crescita e lo è stato anche durante il 2018. Personalità che, dopo aver studiato fuori Messina, hanno fatto fortuna in altre città, abbandonando la città in riva dello Stretto troppo spesso superficiale rispetto a quei cittadini capaci che non hanno trovato nella terra natia il giusto spazio e ricevuto i giusti riconoscimenti.

Ma ci sono anche quelle personalità che, nonostante tutta la sterilità della situazione di partenza, prendono il coraggio a piene mani e tornano lì dove hanno radici, dopo aver portato in alto il nome di Messina. É il caso, per esempio, dello chef Pasquale Caliri, nominato di recente Ambasciatore del Gusto, che, dopo aver abbandonato la carriera del giornalismo, ha deciso di dedicarsi anima e corpo alla cucina, scalando ben presto le vette del successo nell’ambito culinario, ma che non ha abbandonato la sua città. Ma è anche il caso di Francesco Bonaccorso, panettiere per 25 anni in riva allo Stretto, oggi diventato uno dei massimi esperti di grafene, e attualmente ricercatore all’Istituto Italiano di tecnologia di Genova.

L’inversione della fuga di cervelli che una volta conclusa fuori Messina la loro formazione possano far ritorno in città per migliorarne l’assetto culturale è sempre il solito auspicio: perché una città orfana di futuro è una città che lentamente muore, giorno dopo giorno.

 

 

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