Ogni anno nel periodo pre-natalizio un lacerante dubbio attanaglia le menti della collettività: “ma il Natale si festeggia il 24 a cena o il 25 a pranzo?”  Differentemente dagli  stati nord-americani ed europei (soprattutto quelli nordici e scandinavi) che sono soliti festeggiare allo scoccare della mezzanotte, in Italia la situazione cambia da zona in zona. In Sicilia, e più precisamente nella città dello Stretto, per ovviare al problema della scelta ma, soprattutto come conseguenza della ghiottoneria “trasuta” nel Dna, nel patrimonio genetico del messinese, la tavola s’imbandisce e per la cena della Vigilia e per il pranzo di Natale (e usualmente si “sconsa” il 7 gennaio, senza soluzione di continuità). E così quella “magra cena” dell’ultimo giorno dell’Avvento, che la tradizione voleva fosse sobria, dato che l’attesa della nascita di Gesù era un momento sacro e di astensione (vigeva il divieto di mangiare carne perché considerata cibo di lusso), oggi si è trasformata in un baccanale opulento di sapore e goduria dalla durata di 72 ore (se si conta il susseguente Santo Stefano).  Nonostante ciò, le umili pietanze originarie a base di pesce e verdure continuano ad essere le protagoniste la sera del ventiquattro, mentre il venticinque si opta per la carne.

 

Pisci stoccu a’ ghiotta e baccalà frittu

Dalla stessa materia prima, ovvero il merluzzo, ma tramite due metodi di lavorazione e conservazione diversi si ottengono tramite essiccazione  lo stoccafisso, e tramite conservazione sotto sale il baccalà.  Con il primo si prepara il tipico “pesce stocco a’ ghiotta” cucinato con una base di soffritto di cipolla, sedano, capperi e qualche oliva salata con aggiunta di salsa di pomodoro (preferibilmente fatta in casa), con il quale potrete condire la margherita lunga, pasta caratteristica del messinese.  Tutti quelli che non amano il  gusto e il peculiare odore dello stocco possono optare per il baccalà infarinato e fritto, ovviamente infischiandosene del diktat del medico curante e infliggendo ferite mortali al dietologo. Inarrivabile la giustificazione: “tanto è pesce azzurro, non ha colesterolo”.


I primi: pasta ‘ncaciata e spaghetti ca’ muddica

Altro pezzo forte a fare capolino sulle tavole peloritane è la maliziosa e irresistibile pasta ‘ncaciata, pietanza preferita del commissario Montalbano, definito da Camilleri come ” piatto degno dell’Olimpo”: ragù, uova sode, salame, piselli, formaggi e (in estate) melanzane fritte rimescolati nella pentola con la pasta scolata al dente. Una particolarità della pasta ‘ncaciata è la non rispondenza al sistema metrico decimale. Come unità di misura, infatti, si utilizza un parametro unico al mondo: non il chilo, non la libbra, ma la “spasella“. Un altro primo natalizio, facente parte delle ricette della cucina tipica siciliana è la pasta ca’ muddica: che consiste in spaghetti cotti al dente e conditi con acciughe soffritte nell’olio e cosparsi o di  muddica atturrata (pangrattato tostato). Poi l’arsura è pari a quella di uno che sta attraversando il Sahara a piedi, ma ne è valsa la pena.


U’ fausumagru

Per quanto riguarda la carne, il venticinque nella tavola imbandita del messinese non poteva mancare il falsomagro al ragù: un rotolo di carne di manzo o vitello, farcito con uova sode, provolone piccante, salame e mollica condita (negli anni alleggerito dai surrogati  del provolone e del salame con prosciutto cotto e soresina ). Il succulento pezzo di carne, dal divertente nome che suona vagamente di presa in giro, veniva arrotolato e legato con il film della spagnoletta. Il companatico ideale? Era un’ insalatona di lattuga nostrana e finocchi. LOL.


L’anguilla e il capitone

Altro pesce immancabile alla vigilia di Natale è l’anguilla (o il capitone, la femmina dell’anguilla). Si può gustare fritto, marinato, in umido e anche alla griglia. Questa usanza ha un valore simbolico: anticamente si credeva che l’anguilla fosse il pesce serpente e che per questo fosse anche simbolo del demonio e quindi mangiarla nella festa sacra per eccellenza era un modo scaramantico per allontanare il male e di buon auspicio. Questo, e il fatto che beh, insomma, non si può campare sempre e solo di focaccia e pidoni (o forse sì…)


Dulcis in fundo: sfinci, scacce e chi più ne ha più ne metta

Dulcis in fundo sono le sfinci: delle morbide frittelle dalla forma irregolare e dalla consistenza spugnosa spolverate di zucchero a velo e cannella, l’impasto è composto da farina ed acqua. ll termine forse derivante dal latino “spongia” e dal greco “sfoggia” che entrambe significano spugna, o dall’arabo“isfang”. La versione classica è quella dolce con il ripieno d’uvetta ma esiste anche la variante salata con le acciughe. Qui la scelta è ardua, e la preferenza per l’una o l’altra connota lo status di un individuo. Ancora più in fundo poi, al godereccio convivio made in Messina non mancano di certo i dolci, il cavallo di battaglia della città: cannoli, cassate, bianco e nero, pignolata, torroni e per quelli di stampo filo-settentrionale pandoro panettone e compagnia bella. In ogni tavola che si rispetti inoltre non può mancare il tipico cestino stracolmo di scacce: mandorle, pistacchi, nocciole, noccioli, datteri e fichi secchi.  Praticamente tutto quello che in natura contiene più energia dell’uranio 238. Dopo, con buon auspicio di tutte le divinità, per tentare di ottimizzare la  digestione si consiglia una bella confezione di bicarbonato di sodio o un gaviscon, vostra la scelta.

 

 

 

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