Com’è che uno che ha studiato informatica è finito a fare il giornalista? Con tanto di tesserino preso a cavallo degli esami di maturità, quando la notte prima della seconda prova tornai a casa alle 5 del mattino dopo aver rincorso il neo sindaco (da meno di un’ora) Cateno De Luca in processione dopo la sua elezione. Mi piacerebbe poter dire che sia successo solo per caparbietà. Perché quando voglio una cosa me la prendo. Perché quando le cose sono destino non ci si può mettere di traverso. Ma non posso farlo, perché in cinque anni di superiori c’è stata una scuola che mi ha sempre assecondato. Una scuola risollevata da una preside che aveva una precisa visione dell’educazione. E che mi ha sempre dato la “green light” nonostante tutto quello che facessi portava ad un percorso totalmente opposto a quanto sarebbe stato scritto sul diploma (che, a proposito, devo ancora ritirare). E oggi, più che mai, guardando quell’Istituto da un’altra prospettiva, mi rendo conto della sua impronta e di come, nonostante i numerosi cambiamenti (in meglio, sia chiaro), da quando è arrivata lei il percorso formativo di questa scuola è stato basato su un principio fondamentale: assecondare gli studenti. Dare loro spazio. Renderli protagonisti attivi, e non passivi, del percorso scolastico. Quello che l’Unione Europea oggi vanta come il metodo di educazione per eccellenza, quello che funziona nei Paesi nordici, ovvero l’educazione non formale, Simonetta Di Prima, dirigente scolastica dell’Istituto d’Istruzione Superiore Verona Trento – Majorana, andata in pensione solo qualche giorno fa, lo applicava già da anni.

E, infatti, la sua più grande qualità (o quanto meno, dai miei occhi) era quella di far sembrare i nostri colloqui dei confronti, mai una conversazione unilaterale. Ed è probabilmente per questo (non me ne voglia il buon professore Todaro, un santo da tutti i punti di vista) che ogni scusa era buona per andare in presidenza (e su quel divanetto c’era la fila). E probabilmente, se avessimo contato le ore, erano più quelle spese ad aspettare lei (o proprio dentro la sua stanza) che quelle a cercare di capire cosa fossero funzioni e integrali.

Però avevamo di che discutere. Io, lei e l’altro Andrea (anche lui in grado di comprendere appena il funzionamento di accensione e spegnimento di un computer). C’era un giornalino da pubblicare. C’era l’iniziativa Erasmus guidata dal professore Amara. E poi boh, era più piacevole stare lì a scambiare quattro chiacchiere su milioni di idee che braccavano le nostre menti da sedicenni che sui libri. E poi lei c’era. A darci “i pieni poteri” (dopo averci detto la sua opinione, ma anche averci chiesto la nostra). Anche quando forse non era dell’umore giusto, perché pure se speciale per migliaia di studenti, dentro e fuori quelle mura, i problemi non lasciano in pace nessuno. E quindi a volte si tornava in classe a testa bassa.

Ma mi piace pensare (anzi, sono sicuro che fosse così) che anche da casa pensava ai suoi studenti. Forse anche a me (non voglio sembrare troppo egocentrico, per questo ho aggiunto il “forse”). Anche se erano i professori a vedermi entrare a seconda ora perché c’era stato un incidente di fronte alla scuola (e la notizia non si poteva bucare) e anche se erano sempre i professori a trovarsi uno studente in laboratorio che, all’ultimo banco, anziché programmare in C++ usava il pc della scuola per scrivere l’articolo sull’incidente, o che non entrava affatto per andare il venerdì in Tribunale a seguire la cronaca giudiziaria, sono sicuro che lei fosse felice di sapere che uno dei suoi studenti stesse alimentando quella che, più che una professione, appariva già come una vocazione. E dirò di più: penso anche che ci credesse. Forse per la quantità costante di domande che ponevo, frutto di una curiosità che, sempre secondo me, lei aveva percepito e che, a detta del mio direttore, è una delle mie migliori qualità.

Ci sono tornato, ovviamente, alla Verona Trento, più volte. Non solo per lavoro. E non ho mai mancato di bussare alla sua porta. E lei non ha mai mancato di ricambiare con un sorriso, con uno sguardo che non era più quello di una preside pronta ad aiutare, sostenere e assecondare, ma soddisfatto. Perché quello che per noi studenti è un traguardo, per i dirigenti di una scuola sono migliaia.

Com’è che uno studente di informatica è diventato un giornalista? Perché, tra gli altri, la preside Simonetta Di Prima lo ha assecondato in tante (troppe) cose.

Subscribe
Notify of
guest

0 Commenti
meno recente
più recente più votato
Inline Feedbacks
View all comments