Avevo pensato di scrivere un pezzo sul perché il lutto nazionale disposto dal Governo per la morte di Silvio Berlusconi sia fuori luogo, oltre che costituire un insulto per quanti (due a caso, Falcone e Borsellino) l’avrebbero meritato in occasione delle proprie esequie e non l’hanno avuto. Ma su tale argomento hanno già detto cose egregie Tomaso Montanari e Vito Mancuso, i cui interventi possono essere agevolmente ritrovati sui social, quindi mi astengo.
La morte di Berlusconi mi suscitava piuttosto anche un’altra considerazione. Assistendo agli interminabili e stucchevoli dibattiti che si sono accesi nelle tivvu pubbliche e private, è stato più volte rivendicato a quest’uomo, da parte dei suoi assai zelanti estimatori, il pregio di avere titanicamente lottato contro il comunismo e contro l’egemonia di una cultura di sinistra che ha da sempre dominato in Italia. A tale egemonia veniva naturalmente dai solerti estimatori abbinata anche quella dei giudici, dei giornalisti etc. etc., che per decenni si sono accaniti contro questo adamantino difensore delle libertà.
Poiché non pretendo che gli estimatori (che sarei tentato di definire anche, con un termine assai noto durante il ventennio a loro caro, ascari) abbiano mai letto ciò che Antonio Gramsci scriveva sugli intellettuali e sull’egemonia, mi provo in poche battute a correggere tale loro impressione di un’egemonia della sinistra durante l’era berlusconiana.
E mi verrebbe da dire: egemonia de che? Per parlare di un’egemonia della sinistra nel nostro Paese occorre andare indietro nel tempo, perlomeno agli anni cinquanta-ottanta, precisamente quelli che hanno preceduto il sorgere del berlusconismo. Si trattava di un’egemonia figlia dell’antifascismo e della Resistenza, dell’Italia Repubblicana e della Costituzione, di un’egemonia basata sulla cultura del lavoro e dei diritti, su uno sguardo dispiegato criticamente sulla società italiana e le sue contraddizioni. Un’egemonia “di sinistra” i cui esponenti erano intellettuali come Italo Calvino, Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Giulio Einaudi, Leonardo Sciascia, Umberto Eco, e che trovava editori, giornalisti, docenti universitari, uomini e donne dello spettacolo, del cinema e del teatro orientare la propria attività in una direzione democratica e progressista. Tutto ciò beninteso in un contesto dominato politicamente dalla balena democristiana che avendo già assicurati i propri serbatoi elettorali poco si curava che a livello culturale si fosse affermata una società civile orientata intellettualmente a sinistra, dato che essa si limitava a incidere su una parte del corpo elettorale priva della consistenza numerica in grado di modificare gli assetti dominanti e gli equilibri di potere. Questa balena DC annoverava peraltro al proprio interno politici al cui confronto la larga maggioranza di quelli odierni risulta essere una grottesca e ridicola scimmiottatura.
Bene, questa “egemonia della sinistra”, dalla quale l’uomo di Arcore si è sempre sentito minacciato, è stato proprio lui a metterla in crisi e farla progressivamente declinare imponendone una propria di segno opposto. Non già, beninteso, con un progetto culturale “di destra” o liberal come amava spacciarlo, bensì con la feroce berlusconizzazione del Paese, con i trent’anni e passa di televisione spazzatura che hanno ridotto in pappa i cervelli di tantissimi italiani, con lo smantellamento sistematico di ogni regola democratica, laddove essa fosse di ostacolo agli interessi personali, con uno straordinario potere d’acquisto esercitato nei confronti di politici, giornalisti, gente di spettacolo, intellettuali, donne e uomini pronti a saltare sull’allegra carretta tirata da un narcisista irrecuperabile, capace di mentire sorridendo e di convincere una larga parte di italiani che i vizi di un tempo erano in realtà virtù.
Come ha fatto quest’uomo a cambiare il cuore di tanti italiani? Certamente con i suoi numerosi e sempre bypartisanamente garantiti mass-media, televisioni, giornali, case editrici, con un ceto politico sempre più dipendente, ma anche e forse soprattutto dalla sua straordinaria abilità di guitto, di piazzista capace di far accettare ogni suo prodotto come dono salvifico generosamente elargito all’intera società.
Berlusconi amava spesso intrattenere il suo uditorio – poco importa se una cerchia ristretta di amici o i partecipanti a un convegno – raccontando barzellette, e il suo repertorio, che attende ancora un antropologo o uno psichiatra che si dedichino a studiarlo, veicolava sempre uno stile di vita, una concezione della realtà, un’idea sul potere, sul denaro, sulle donne, sull’etica pubblica agli antipodi non dico soltanto della “cultura di sinistra” ma della visione cristiana, evangelica del mondo. Adesso il barzellettiere se n’è andato, ma le sue barzellette sono divenute un patrimonio assai condiviso tra quanti amano lasciarsi controllare a vista dai televisori, nel buio delle loro stanze. E la nostra democrazia, come dice Mario Del Pero, è sempre più affaticata.