La notizia che il Vaticano (la Congregazione delle Cause dei Santi) avesse dato il via libera per il processo di beatificazione di Natuzza Evolo mi ha riempito di gioia. Questa mistica di Paravati infatti, morta nel 2009, ha declinato lungo l’intero corso della sua esistenza tutte le beatitudini evangeliche. Considerata uno dei casi più interessanti in seno alla religiosità popolare meridionale, Natuzza è stata studiata da medici, psichiatri, antropologi, tutti stupefatti della sua capacità di coniugare lo straordinario e il quotidiano, accompagnando alla presenza di segni indubbiamente portentosi e carichi di mistero una vita trascorsa nell’umiltà e dedicata al servizio del prossimo.

Nel corso di un’infanzia assai povera e travagliata, già da bambina Natuzza inizia ad avere visioni, accompagnate da singolari fenomeni mistici. Nel piccolo centro del Vibonese questi fatti destano grande scalpore, e come spesso accade un gran numero di persone accorre presso l’abitazione della piccola mistica credendo di trovare in lei una nuova “santona”. Niente di tutto questo. Natuzza si limita a raccontare le sue visioni, i messaggi che le provengono dall’al di là, senza mai dar mostra di voler trarre profitto da tale sua esperienza, affatto intima e personale, della quale rende partecipi gli altri solo se interpellata e sempre nella veste di testimone oculare, di persona informata sui fatti come si direbbe in gergo giudiziario.

Naturalmente la Società tutt’intorno vuole vederci chiaro. Mentre le autorità ecclesiastiche invitano alla prudenza Natuzza viene anche sottoposta a un ricovero psichiatrico, perché ne vengano accertate le eventuali turbe. Ma turbe non ce ne stanno, ci sono solo fenomeni inspiegabili. Ancorché analfabeta, Natuzza mostra sul proprio corpo, sulla propria pelle segni sacri e frasi in latino, aramaico e altre lingue a lei sconosciute. Inoltre rivela attitudini che appaiono fuori dell’ordinario. Vede Gesù, la Madonna, i santi, le anime dei defunti, parla con l’Angelo custode, riceve le stimmate, ha il dono della bilocazione, all’approssimarsi della Settimana Santa rivive sul proprio corpo la Passione del Signore. Nonostante gli impegni familiari (intanto si è sposata e ha partorito cinque figli) accetta con umiltà tale suo straordinario carisma e non si nega mai alle folle che sempre più numerose si recano a trovarla. Per tutti ha una parola di conforto, a tutti assicura le sue preghiere, in tutti l’esperienza con la sua persona sortisce “guarigioni”, a volte di ordine somatico a volte sotto forma di radicali revisioni di vita. E Natuzza vive e attraversa tutto ciò con una disarmante umiltà e in assoluta sintonia e obbedienza verso la Chiesa e le sue gerarchie, che pure non cessano di guardare con sospetto a tale realtà. Non si pone di fatto, come avviene in genere nei casi di “religiosità effervescente” presso le culture popolari del nostro Mezzogiorno, in uno stato di contrapposizione con la struttura ecclesiastica che nel suo contesto sociale sovrintende alla gestione del sacro. Viceversa percepisce la propria singolare condizione alla stregua di un mandato che la induce a donarsi agli altri, a rendere partecipi quanti l’avvicinano di tale suo misterioso potere di far da tramite fra i due mondi, quello visibile e quello invisibile.

L’avvio del processo di beatificazione indica come ormai tutte le riserve a lungo espresse dalla Chiesa siano cadute. A me preme piuttosto svolgere alcune considerazioni di ordine antropologico su Natuzza.

Questa donna analfabeta, mite e umile di cuore, si è fatta, senza averne consapevolezza e probabilmente non per propria volontà, sciamana della sua comunità. Una sciamana benefica, che tiene aperta la porta tra mondo di qua e mondo di là, che di quel mondo ai più sconosciuto diventa capace di decriptare i messaggi e tradurli a beneficio dei suoi simili. Che vive le sofferenze impresse nel proprio corpo come una caparra offerta in vista delle gioie che l’attendono nel Paradiso verso cui è proiettata.

 

 

Ma, soprattutto, Natuzza è una donna in sommo grado capace, e disposta, a caricarsi delle sofferenze degli altri, di tutti quegli altri che le si accostano, e in questo farsi carico svolge una funzione protettiva e rassicuratrice, in ultima analisi squisitamente terapeutica. Non si contano, o si contano nell’ordine delle migliaia, le persone “guarite” da Natuzza, che si sono sentite risanate nel corpo o nello spirito dal semplice esser venute in contatto con lei e aver ascoltato le sue parole.

In un mondo assai poco attento ai bisogni del prossimo, agli altrui disagi e alle altrui sofferenze, non è già questo un miracolo?

La vicenda esistenziale di Natuzza Evolo, attraverso i meccanismi che ne hanno caratterizzato lo svolgimento, testimonia in qualche modo come il fine da perseguire, nella nostra come in qualunque società, non sia tanto quello di non soffrire quanto quello di fornire orizzonti alla propria sofferenza. In ciò rimane per sempre rischiarata la prassi codificata presso i ceti popolari di giustificare l’ineluttabilità della sofferenza attraverso costanti esercizi di conferimento di senso, facendo defluire quella che de Martino chiamava “l’enorme potenza del negativo quotidiano” per entro un sistema di condivisione comunitaria del patire, che si rivela nell’ideologia tradizionale la strategia per eccellenza dell’azione terapeutica.

 

 

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