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L’Economia

L’economia del villaggio da sempre si è basata sull’estrazione e la lavorazione della pietra di gesso che produceva una buona economia esterna i cui proventi però andavano prevalentemente ad appannaggio dei padroni delle cave, delle fornaci e dei mulini. Le attività agricole prevalentemente basate sulla produzione di olive e di prelibate specie ortive e da frutto producevano anch’essi un’economia esterna la quale andava a favore dei latifondisti. Solo i residui venivano immessi nel povero mercato interno. Per la gran parte della popolazione c’era il lavoro a giornata, privo di diritti sindacali.

Così si spiegano le condizioni di povertà in cui per secoli ha versato gran parte della popolazione ibbisota ridotta quasi in schiavitù, nonostante le campagne fossero produttive e la filiera del gesso incessante. Con l’avvento della modernità e della meccanizzazione le povere condizioni economiche si aggravarono. La filiera produttiva divenne definitivamente obsoleta e fuori mercato. I vecchi padroni delle cave e delle fornaci preferirono investire in altre attività invece di industrializzare la produzione del gesso, lasciando definitivamente spazio alle nuove industrie del nord. Ciò provocò un notevole calo demografico, una diaspora verso la città e per molti fu l’emigrazione. Oggi le cave sono tutte ricoperte da terreno vegetale e le campagne prevalentemente abbandonate.

Il borgo per molti secoli fu tappa strategica per chi trasportava merci, a dorso di mulo o sui carromatti, dai centri della costa tirrenica alla città di Messina e viceversa. Era una sorta di stazione di posta, probabilmente in origine fu una delle tante staziones romane. Questo potrebbe spiegare il toponimo di una frazione del borgo chiamata “Locanda”.

 

Gran parte dei prodotti agricoli che giungevano ai mercati del capoluogo peloritano, per secoli furono coltivati nell’unica pianura intensivamente coltivabile della provincia di Messina: la Piana di Milazzo. Un’estesa pianura che era per Messina come la Conca d’Oro per Palermo o la Piana di Catania per il capoluogo etneo. Qui si coltivavano tutte le specie ortive e da frutto che venivano commercializzate ai Mercati Generali di Messina. Il loro trasporto, prima della meccanizzazione, avveniva su carri a trazioni animale, e la via più breve per raggiungere la città era scollinare i Peloritani.

I carri, dalla Piana di Milazzo (scelleratamente convertita, nel secondo dopo guerra, in un funesto polo petrolifero e in una centrale termoelettrica) carichi di prodotti agricoli, ogni giorno sul finire della mattinata cominciavano ad avviarsi verso Messina lungo la vecchia Consolare Pompea. Giunti a Ponte Gallo cominciavano la salita verso Gesso dove giungevano nel tardo pomeriggio ed ivi sostavano presso alcune locande per far rifocillare gli animali e riposare i conducenti, i quali solo in tarda serata o a tarda notte riprendevano la strada per Messina per giungervi in tempo prima dell’apertura dei mercati.

Queste taverne di posta costituirono a lungo una significativa economia di transito. Gesso per molto tempo fu un autogrill ante litteram. Poi con l’avvento del motore e il potenziamento delle infrastrutture anche questa economia andò perduta.

La Società

Un tempo Il paese era molto popolato, vi era persino la sede di una Pretura. La popolazione si divideva a metà: il 50% era esclusivamente impiegata nella filiera del Gesso; l’altra metà, prevalentemente donne o uomini anziani, era impiegata nelle campagne. Nella seconda metà vanno computati anche i pochi artigiani e qualche commerciante. Quest’ultimi soddisfacevano solo le necessità interne della comunità. Coloro che lavoravano nella filiera del gesso erano in prevalenza uomini e fanciulli. Bambini e bambine venivano impiegati, fin dalla tenera età (a partire da 5-8 anni) così la loro scuola era la Pirera o la Caccara.

Appena individuata la presenza di un filone di roccia di gesso, la prima attività, per avviarne l’estrazione, era quella di costituire l’area di cava, chiamata Pirera. Un’operazione preliminare che consisteva nella rimozione di tutto il terreno vegetale che stava in superficie. Questa attività veniva affidata esclusivamente ai bambini i quali avevano il compito di scavare il terreno fino alla roccia e di trasportarlo a spalle in altro sito affinchè lo spazio d’estrazione fosse libero per la lavorazione e l’accesso.

Liberata l’area di cava si faceva brillare la dinamite che frantumava la roccia in grandi blocchi, ognuno dei quali successivamente veniva ridotto, a colpi di mazza, in pietre di più piccole dimensioni il cui peso si aggirava intorno a trenta chili: questo lavoro era affidato agli uomini più vigorosi della comunità. I blocchi di gesso ridotti e resi di forma stoccabile andavano trasportati dalla Pirera fino allo spazio carrabile più prossimo dove vi erano i carri pronti per essere caricati.

Il trasporto a spalla veniva effettuato dai bambini equipaggiati con le baddedde, una sorta di cesta a zaino, che indossavano sulle spalle. Queste ceste venivano riempite dai ragazzi più adolescenti, loro predecessori, che intanto erano passati a lavori più pesanti. Questi sollevavano le pietre sulle spalle dei più piccoli. Così carichi (da 30 a 60 kg), i bambini cominciavano a risalire il fondo della cava lungo i terrazzi a spirale, che d’estate erano roventi e accecanti e d’inverno fangosi e scivolosi, fino ai carri. Una fatica minorile da girone dantesco. I bambini di Gesso erano come i Carusi delle solfatare, gli schiavi bambini raccontati da Pirandello e Verga (Ciaula scopre la luna e Rosso Malpelo – n.d.a.) e immortalati da Guttuso e da Onofrio Tomaselli.

Caricati, i carri questi muovevano verso le Caccare: fornaci circolari, dove la pietra veniva cotta. Le Caccare venivano fittamente costipate di pietre, come degli altiforni, per ciò la pietra proveniente dalle Pirere doveva essere ben sagomata, per aumentare la quantità da cuocere. A queste operazioni di caricamento erano deputati operai più specializzati. I bambini nelle Caccare erano impiegati nella raccolta della legna nel sottobosco che serviva ad alimentare il fuoco di cottura trasportandola sempre in spalla. La pietra ormai cotta e disidrata veniva macinata nei mulini che si trovavano quasi sempre a ridosso o prossimi alle Caccare. Ottenuto il gesso in polvere, si confezionava in sacchi che venivano inviati ai grandi distributori di materiale edile che lo commercializzavano.

Questi bimbi erano impiegati dal lunedì al sabato e lavoravano dall’alba al tramonto, e colui che si fosse presentato qualche minuto dopo l’arrivo del chiarore del sole, per essersi attardato un po’ sotto le calde coltri, non veniva assunto e perdeva la giornata, generando nocumento alla già misera economia famigliare. Così ci testimonia Antonio Cappuccio, uno degli ultimi “Carusi delle Pirere”, che abbiamo incontrato tra le vie del paese: un ottuagenario che nella Pirera cominciò a lavorare all’età di sei anni e ci rimase fino a quando perse un occhio per via di una scheggia di piccone.

Il villaggio fu un vero e proprio villaggio minerario, funzionale all’attività estrattiva e alle attività di trasformazione e lavorazione del gesso. Tutta la filiera del materiale nobilitato, tra il ‘600 ed ‘700, dall’arte scultoria di Giacomo Serpotta, era cinicamente basata sullo sfruttamento del lavoro minorile.

Come in altre spietate realtà anche a Gesso i lavori più faticosi e stremanti, per abbattere i costi di produzione, venivano affidati ai bambini, esseri viventi che meno degli altri potevano sopportare la fatica, minandone la salute per sempre. Quante ricchezze si sono fondate sul sacrificio di quelle innocenti creature? Di quale romantica civiltà contadina oggi si parla? Di quali tradizioni ci vantiamo?

Forse è venuto il momento di fare i conti veri con un passato che per certi versi è stato atroce per via di un feudalesimo schiavista fino a ieri irrisolto e oggi molto spesso esaltato. Forse è il caso di raccontare certe condizioni sociali così crudeli che oggi fanno spavento, innalzando monumenti a quella infanzia negata e violata che tanto ci ricorda gli schiavi bambini delle solfatare.

A noi dopo aver scoperto questa storia ci piace pensare che i famosi Angeli del Serpotta hanno visto la luce grazie ad altri angeli sconosciuti, disumanamente sfruttati, il cui sacrificio ha fornito il materiale con il quale lo scultore panormita ha realizzato eccelsa bellezza.

Ci piace pensare che quei straordinaribambini di gesso di Santa Cita e di S. Lorenzo sono stati realizzati grazie anche al sacrificio di altri “bambini di Gesso.

Solo pensandoli artefici involontari di tanto splendore possiamo rendergli omaggio.

Ma una comunità per secoli così soggiogata tutto questo forse non lo sa …

 

(a cura di Carmelo Celona)

 

 

 

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